Ingrid D. Rowland

Sotto il vulcano

da ''The New York Review of Books''
STORIA: Una mostra del British Museum e il libro Ercolano. Colori da una città sepolta forniscono l'occasione a Ingrid Rowland di parlare della storia di Pompei e Ercolano, le meravigliose città sepolte che oggi devono affrontare cataclismi forse meno spettacolari delle eruzioni del Vesuvio ma non meno distruttivi: inquinamento, cambiamento climatico, avidità, ignoranza, povertà, corruzione politica e crimine organizzato.
Life and Death in Pompeii and Herculaneum, catalogo di Paul Roberts di una mostra al British Museum, British Museum Press, pp. 320 , $45, 00

MARIA PAOLA GUIDOBALDI, DOMENICO ESPOSITO, LUCIANO PEDICINI, Ercolano. Colori da una città sepolta, Arsenale, pp. 352, € 122,00

Lo scrittore francese Marcel Brion sottotitolò il suo studio del 1960 su Pompei ed Ercolano «La gloria e il dolore» una frase che cattura il persistente mistero di queste due antiche città romane, entrambe sepolte dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. L’esplosione stessa fu una vista maestosa, se non esattamente gloriosa: abbiamo la parola di un testimone, Plinio il Giovane, che paragonò la colonna di fumo creatasi dal centro polverizzato della montagna a un pino domestico, l’alto e grazioso albero locale che virtualmente simboleggia la Baia di Napoli.

Il pino domestico fu un’immagine così perfetta per la nuvola vulcanica che quasi ogni successivo testimone a un’eruzione del Vesuvio l’ha riproposta. Quando la montagna tornò a vita violenta nel 1631 dopo secoli di quiete, la nuvola a forma d’albero apparve di nuovo:

Il fumo si restrinse a forma di pino domestico, e aumentò gradualmente così tanto, come gli osservatori hanno riferito, che arrivò fino a trecento miglia d’altezza – la terra sembrava volersi mescolarsi al cielo. Ciò fu seguito immediatamente da un’enorme eruzione di globi di fuoco e da un brontolio sotterraneo e schianti come quelli di un orribile tuono, poi da continui fulmini e lampi, e poi si riversò un’enorme quantità di sabbia nerastra simile a cenere, che all’iniziò sembrò presentare una superficie umida, ma velocemente, come il sole l’asciugò, cambiò il suo colore in quello delle nuvole bianche e luminose, quasi come seta[1].

Eruzione del Vesuvio del 1944

Eruzione del Vesuvio del 1944

La più recente eruzione del vulcano è avvenuta nel 1944, sul finire della Seconda Guerra Mondiale. L’ufficiale britannico Norman Lewis vide il pino di fumo, seguito da uno spettacolo di fuochi pirotecnici geologici:

Simboli di fuoco venivano scarabocchiati intorno all’acqua della baia, e periodicamente il cratere scaricava nel cielo serpenti di fuoco rosso sangue che pulsavano con riflessi di lampi.[2]
 

Ma queste gloriose esplosioni simili ad alberi di fuoco celestiale portarono anche una disgustosa nuvola di detriti nella loro scia, e la puzza di uovo marcio dello zolfo. Nel 1767, William Hamilton, l’ambasciatore britannico a Napoli, fu sorpreso da un’esplosione secondaria mentre esplorava un’attività eruttiva del Vesuvio:

La terra tremò nello stesso momento in cui una raffica di pietra pomice cadeva copiosamente su di noi; in un’istante, nuvole di fumo nero e di cenere causarono una quasi totale oscurità; le esplosioni dalla cima della montagna furono molto più rumorose di qualsiasi tuono che io abbia mai sentito, e la puzza di zolfo fu molto forte.
 
La colonna di fumo e i fuochi d’artificio celestiali fecero da preludio a cataclismi più terrificanti. Nel 79, come riporta Plinio il Giovane, le acque gloriose della Baia di Napoli si trasformarono in un vorticoso gorgo (come si svuotò, il vulcano mandò scosse attraverso la terra), e poi la montagna eruttò la sua più mortale carica: spruzzi di detriti solidi sospesi sul gas bollente. Queste sospensioni gassose, chiamate flussi piroclastici, si comportarono come fiumi liquidi, ma si mossero molto più velocemente dei liquidi, scendendo lungo il fianco della montagna veloci come una Ferrari, uccidendo ogni essere vivente sul loro cammino.

A Ercolano, arrivò il primo di questi orribili flussi che prese la vita a trecento persone che si ammassavano sulla riva del mare in cerca di rifugio; pochi secondi prima, aveva carbonizzato tutto il cibo, il mobilio, gli alberi, i libri di papiro, i balconi, le imposte e le travi della città. L’esplosione incandescente si mosse così rapidamente da cogliere le vittime di sorpresa, vaporizzandole prima che avessero il tempo di provare paura o dolore. Come i gas refrigeranti di questo flusso e di quelli che seguirono si liquefecero nell’atmosfera, il limo piroclastico che si lasciarono dietro si solidificò in una densa roccia vulcanica,  blindando Ercolano al di fuori del mondo romano.

Ercolano

Ercolano

Pompei, lontana poche miglia a sud, si trovava sottovento rispetto al Vesuvio il giorno dell’eruzione. Il Vulcano sparò fuori una pioggia di sassolini chiamati lapilli, che erano i resti di terriccio del centro esploso della montagna. La ghiaia trasportata dal vento fu spinta verso sud dalle raffiche vulcaniche e dai venti soverchianti, accumulandosi negli angoli e rimbalzando su tetti e teste prima di avvolgere la città in uno spesso strato di ghiaia rossastra. Anche qui, seguirono una serie di ondate piroclastiche, che dilagarono per la città in onde di gas velenoso, e asfissiarono i folti gruppi di rifugiati e un cane al guinzaglio pochi secondi prima che i loro muscoli si contraessero sulle ossa e li facessero attorcigliare nelle posizioni agonizzanti in cui gli scavatori li trovarono secoli dopo. Come le vittime di Ercolano, queste persone e il cane avevano sicuramente provato terrore e paura, e grande sofferenza prima di morire, ma non un vero dolore dell’incenerimento; i nervi e i cervelli si dissolsero troppo rapidamente per registrare qualsiasi sensazione della fine.

Le parti inanimate delle due città, d’altra parte, sopravvissero in misura straordinaria, benché alcune mura dipinte di giallo si fossero trasformate in rosse nel calore delle ondate piroclastiche. Le costruzioni di legno a Pompei si disintegrarono completamente (mentre ad Ercolano furono lasciate intatte ma carbonizzate), ma le porte, gli infissi e i corpi lasciarono impronte cave nei detriti vulcanici induriti che si depositarono intorno a loro.

Il disastro fu grande sufficientemente da avere effetti concreti sulla stessa Roma. Certamente raffreddò l’entusiasmo romano nel fare vacanze nella Baia di Napoli, e uno scrittore dell’epoca,  lo storico ebreo Flavio Giuseppe, arrivò al punto di paragonare l’eruzione del Vesuvio alla distruzione di Sodoma e Gomorra. E anche se le città sepolte erano sparite dalla vista, non sparirono mai del tutto dalla memoria. Un romanzo popolare del 1504, Arcadia di Jacopo Sannazzaro, include un viaggio visionario sotto il Vesuvio, compiuto da una ninfa, che dice all’eroe Sincerus:

Sì come ancora i sassi liquefatti et arsi testificano chiaramente a chi gli vede. Sotto ai quali chi sarà mai che creda che e populi e ville e città bilissime siano sepolte? Come veramente vi sono, non solo quelle che da le arse pomici e da la mina del monte furon coperte, ma questa che dinanzi ne vedemo, la quale senza alcun dubbio  celebre città un tempo nei tuoi paesi, chiamata Pompei … Strana per certo et orrenda maniera di morte, le genti vive vedersi in un punto tòrre dal numero de’ vivi![3]

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