Francesca Pratesi

Fiction – L’ascensore

28 luglio, S. Nazario martire. Mario alzò lo sguardo per posarlo sulla parete bianca della stanza, lo riabbassò poi lentamente e altrettanto lentamente sfogliò le pagine vuote dell’agenda. Smise di leggere i giorni limitandosi a pronunciare ad alta voce S. Marta, S. Leopoldo, S. Ignazio di Loyola.

Niente impegni, niente più impegni chissà fino a quando. Gettò l’agenda sul letto disfatto ed uscì dalla stanza. In cucina sua madre lavava con cura della cicoria appena acquistata al mercato, ma volse il viso a salutare il figlio che entrava a curiosare svogliatamente. “Vai all’agenzia?”, “Sì, no, non lo so. Tanto mi dicono che non c’è niente. Però esco”, “Bravo, esci. E sta’ sereno”, concluse la donna con un sospiro scostandosi dalla fronte una ciocca bianca e guardandolo andar via, curvo da qualche tempo, solitario e taciturno, così diverso dal suo Mario d’un tempo.

Era una parola, stare sereno. Aveva quarantacinque anni, non venti.

Camminò a lungo con lo sguardo basso attraversando l’intero quartiere in cui era nato e cresciuto nonché, da qualche mese, ritornato; lo attraversò fino all’agenzia interinale, ma vedendo i giovani che sostavano all’esterno in attesa del proprio turno gli montò su per l’esofago una piena di rifiuto. Basta! Basta con le preghiere, basta con la tortura delle umiliazioni! Proseguì sullo stesso marciapiedi senza curarsi di evitare le tante persone che superava, lo superavano, lo incrociavano nel loro vestiario leggero: ragazze sorridenti, pensionati dal completo frusto, massaie che trascinavano il carrello della spesa, nell’odore acuto di sudore rilasciato da camicie e top sintetici. Portò la mano alle chiavi di casa che tintinnavano da un passante dei jeans e tastò quelle del vecchio appartamento che aveva serbato per ricordo, tanto il nuovo proprietario aveva cambiato la serratura.

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