Peter Beinart

Il guscio degli ebrei americani

da ''The New York Review of Books''
ATTUALITÀ: Secondo il giornalista Peter Beinart esiste un “guscio” metaforico che riveste gli ebrei americani. Un guscio che li rende sordi e incapaci di comprendere le condizioni in cui vivono migliaia di palestinesi.

Parla con gli ebrei americani abbastanza a lungo di Israele e comincerai a notare qualcosa. La conversazione può cominciare con Israele, ma raramente finisce lì. Generalmente finisce con «loro».

Esprimi preoccupazione per i sussidi di Israele agli insediamenti nella Cisgiordania, e ti verrà detto che gli insediamenti non hanno importanza perché «loro» non vogliono accettare Israele con i suoi confini. Cita il recente avvertimento dell’ex capo dello Shin Bet[1],Yuval Diskin che «negli ultimi 10-15 anni Israele è diventata sempre più razzista» e ti verrà detto che qualsiasi siano le imperfezioni di Israele, sono «loro» che insegnano ai loro bambini a odiare e uccidere. Menziona il fatto che l’ex primo ministro Ehud Olmert ha definito Mahmoud Abbas[2] un partner per la pace e ti verrà detto che quello che «loro» dicono in arabo è diverso da quello che dicono in inglese.

Questa primavera a New York ho visto il documentario The Gatekeepers – in cui sei ex capi dello Shin Bet criticano la politica di Israele nella Cisgiordania – insieme a un pubblico prevalentemente di ebrei. Dopo la proiezione un uomo riconobbe che era un film interessante. Poi domandò perché «loro» non criticavano la loro parte come fanno gli israeliani.

Sono solito cercare, in maniera maldestra, di rispondere alle affermazioni riguardanti i palestinesi che così spesso condizionano le conversazioni riguardanti Israele degli ebrei americani. Ma sempre di più do una risposta secca: «Chiedi a loro». Questo di solito mette fine alla conversazione perché nei principali circoli ebrei americani, chiedere che i palestinesi rispondano alle domande senza fine che gli ebrei americani fanno su di loro è estremamente raro. Generalmente, i palestinesi non parlano nelle sinagoghe americane o con la stampa ebraica. L’organizzazione Birtright, che dal 1999 ha portato circa 350.000 giovani ebrei della diaspora – principalmente americani – a visitare Israele, non si avventura nelle città palestinesi e nella Cisgiordania. Degli oltre duecento relatori annunciati alla conferenza politica del 2013 del Comitato Israelo-Americano per gli Affari Pubblici (AIPAC), due erano palestinesi. Per gli standard degli ebrei americani, questo è un numero alto. Il Global Forum del Comitato Ebreo Americano, all’inizio di quest’anno, che aveva annunciato sessantaquattro relatori, non includeva un singolo palestinese.

Domandate alle organizzazioni ebraiche americane perché invitano raramente relatori palestinesi e ti diranno probabilmente che non hanno niente contro i palestinesi di per sé. Solo che non possono offrire una tribuna ai nemici di Israele. Nel 2010, Hillel, l’organizzazione che monitorizza la vita degli ebrei nei campus delle università d’America, ha pubblicato delle linee guida che richiedevano alle diramazioni locali di non invitare relatori che «negano il diritto di Israele ad esistere come stato ebraico e democratico con confini sicuri e riconosciuti», «che delegittimano, che demonizzano, o che discriminano Israele», o «che supportano il boicottaggio di, il disinvestimento da, o le sanzioni contro lo Stato di Israele».

Queste regole rendono quasi impossibile per le organizzazioni universitarie ebraiche invitare relatori palestinesi. Prima di tutto, «delegittimare, demonizzare, o discriminare» è un criterio così vago che potrebbe vietare l’ingresso virtualmente a qualsiasi palestinese (o, d’altra parte, anche a un non palestinese) critico nei confronti della politica di Israele. Anche sostenere uno stato palestinese all’interno dei confini del 1967 violerebbe il criterio dei confini «sicuri», secondo Benjamin Netanyahu.

In secondo luogo, anche i palestinesi moderati come l’ex primo ministro Salam Fayyad, un beniamino dell’America e di Israele, sostiene il boicottaggio dei beni prodotti negli insediamenti. In terzo luogo, il deputato speaker del parlamento di Israele, Ahmad Tibi, un cittadino arabo-israeliano, ha pubblicamente proposto di trasformare Israele da uno stato ebraico in uno senza identità religiosa. Egli presiede le sessioni della Knesset (il parlamento israeliano) ma, secondo le linee guida di Hillel, non potrebbe rivolgersi a un gruppo di ebrei americani in un campus universitario.

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