Dan Chiasson

La “stordita galanteria” di Leonard Cohen

da ''The New York Review of Books''

SYLVIE SIMMONS,I’m Your Man: The Life of Leonard Cohen, Ecco, 570 pp., $27.99

PERSONAGGI: Il poeta Dan Chiasson recensisce la biografia dedicata a uno dei più grandi cantautori (o forse sarebbe meglio dire poeti?) nordamericani degli ultimi anni: Leonard Cohen.

1.

Le canzoni di Leonard Cohen mescolano squallido e sacro in modi che scompaginano entrambe le categorie. Questa musica, interpretata dalla non-voce nasale di Cohen, spesso riprodotta da sintetizzatori a buon mercato, prodotta con mezzi scadenti, talvolta incisa malamente e distribuita in modo inaffidabile, si guadagna tuttavia l’improbabile accesso a termini quali “sacro”, “santo” e “preghiera”, come se trascendesse il fatto di scaturire dalla pancia e dai lombi. Cohen ha attratto molti discepoli e ispirato molte conversioni. È uno dei personaggi più amati del pop moderno, ma chiunque lo ascolti sente di averlo salvato da un’oscurità incombente.

Cohen rappresenta una sorta di alternativa permanente a tutto ciò che abbiamo ascoltato: io sono approdato a lui dopo aver ascoltato troppe volte i Pavement, la band degli anni Novanta originaria della West Coast, con la quale Cohen non ha nulla in comune. In qualche modo avvertii la sensazione di aver commesso un errore ad ascoltare tutto quel tempo altre band e altri cantanti. La sensazione è passata, ma si tratta di una reazione comune: Cohen ispira non solo lealtà, ma una singolare monogamia.

Possiede l’ubiquità di Waldo1 o di Zelig: fa capolino dai margini di ogni foto. Coloro che non hanno mai nemmeno sentito parlare di lui hanno ascoltato le sue canzoni. Partecipa regolarmente a colonne sonore di ogni genere. Il meraviglioso western degli anni Settanta I compari, di Robert Altman, deve gran parte della propria incisività ai suoi brani.

 

Per non parlare di “Hallelujah”, la sua canzone più famosa che accompagna la scena finale di Shrek, nella quale i due orchi generati al computer si abbracciano. È stata una scelta insolita, se consideriamo che i versi più famosi del brano recitano: “Ricordi quando mi muovevo in te / anche la santa colomba si muoveva”…

Non ho bisogno di immaginare Shrek e la sua ragazza in quel tipo di circostanze. Cohen è un personaggio da film – più Altman che Shrek – e le sue canzoni, che creano l’atmosfera che descrivono, sono essenzialmente cinematiche. A vederlo sul palco, con il suo portamento intimista, inquadrato dal cappello di feltro e dalla cravatta, Cohen non si limita a interpretare le sue canzoni: ne è il protagonista.

Conduce una vita nomade, spostandosi da Montreal a New York a Londra alla Grecia a Mumbai a Singapore e ritorno. Non viene identificato con nessun luogo e nessun ambiente in particolare. Frequentava nello stesso giorno Andy Warhol e Judy Collins. La sua musica è opera di un uomo che penetra costantemente nuovi ambienti, rappresentando la nuova attrazione. I suoi testi sono una sorta di chiacchierata o esposizione, a differenza ad esempio di quelli di Dylan, che esistono nella camera stagna ermetica della loro stessa intelligenza – quando non praticano la completa esclusione, o addirittura l’accusa. Questa ambivalenza nei confronti del pubblico, che sfiora lo sdegno, rappresenta il genio di Dylan; Cohen, che quando apparve sulla scena a metà degli anni Sessanta fu definito “il Bob Dylan canadese”, non potrebbe essere più diverso. La musica di Cohen implica l’ammirazione dei suoi ascoltatori ma implica anche che l’ammirazione è una lussuria non catalizzata. Negli anni, molti di coloro che hanno ascoltato la musica di Cohen sono finiti immediatamente a letto con lui – o nel caso lui non fosse disponibile, con chiunque avessero accanto. Cohen è uno di quei sublimi ciarlatani capaci di dare l’impressione che le faccende spirituali dipendano dall’abbandonarsi a un’immediata esperienza carnale.

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