Flavia Piccinni

Radio3suCarta. Donne del Novecento (2° parte)

Nel 1939 nacque lo pseudonimo di Orsola Nemi, dietro cui si nascondeva Flora Vezzani. Flora scelse di chiamarsi Orsola perché suo padre, che aveva combattuto sul Carso, era morto proprio il giorno di Sant'Orsola, il 21 ottobre, e scelse il latino Nemini perché era solita ripetere: «Io voglio essere io e basta», e allora voleva chiarire la sua indipendenza e la sua autonomia, sia politica sia personale. Nemini però era troppo lungo, e allora Orsola fece cadere l'ultima sillaba.

Passioni è un programma articolato in cicli monografici della durata variabile dalle 2 alle 10 puntate. Ogni ciclo propone una narrazione e una esplorazione condotta in prima persona dal protagonista o dai protagonisti intorno a quella “passione” che è al centro del tema scelto e si avvale di interviste, archivio sonoro, musiche. “Passioni” non vuole offrire un approccio giornalistico o didascalico ma piuttosto l’esperienza viva dei protagonisti, la loro storia, le loro emozioni.

A cura di Cettina Flaccavento

regia di Ornella Bellucci e Elisabetta Parisi

 Donne del Novecento (2°parte). Orsola Nemi e Gianna Manzini.

III° puntata. Orsola Nemi

«Bisogna che il problema della forma, dello stile, sia un problema d’anima».

Dai diari inediti di Orsola Nemi.

Flavia Piccinni. Nel 1939 nacque lo pseudonimo di Orsola Nemi, dietro cui si nascondeva Flora Vezzani. Flora scelse di chiamarsi Orsola perché suo padre, che aveva combattuto sul Carso, era morto proprio il giorno di Sant’Orsola, il 21 ottobre, e scelse il latino Nemini perché era solita ripetere: «Io voglio essere io e basta», e allora voleva chiarire la sua indipendenza e la sua autonomia, sia politica sia personale. Nemini però era troppo lungo, e allora Orsola fece cadere l’ultima sillaba. Nella sua vita scrisse e tradusse decine di libri, si dedicò al teatro, alla poesia e alla scrittura in un momento in cui per una donna era difficile emergere. Il suo ricordo adesso è affidato per un ritratto intimo alle persone che la conobbero in vita, come la nipote Francesca Rotta Gentile, professoressa di Lettere e sua grande estimatrice.

Francesca Rotta Gentile. Orsola per me era un figura quasi magica, ho avuto la fortuna di conoscerla quando ero molto piccola, quando andavo a trovarla con mia madre nella sua casa a San Bartolomeo di La Spezia. Era sempre circondata da moltissimi fiori e da gatti, che amava moltissimo. Riusciva sempre a trasmettermi la sua incredibile voglia di leggere e di scrivere. Ricordo giornate trascorse con lei mentre leggeva o sedeva vicino al camino, e ricordo  delle sere d’inverno trascorse a bere latte e a leggere insieme. Orsola amava  moltissimo le favole per bambini, e raccontava spesso a me e mia sorella delle favole inventate da lei, perché aveva un’ inventiva incredibile. Ogni spunto era un’ispirazione per avventurarsi in questo mondo di fantasia. Aveva un volto  elegante, dolcissimo, che trasmetteva  pace e  serenità assoluta in chiunque la incontrasse.

Orsola Nemi

Orsola Nemi

 

Flavia Piccinni.  Ma chi era veramente Orsola Nemi?

Francesca Rotta Gentile.Nacque a Firenze l’11 giugno del 1903 e morì a La Spezia l’8 febbraio 1985. Nel 1939 pubblicò per la prima volta le sue poesie e nel 1942 pubblicò il  primo romanzo, Rococò, edito da Bompiani. Collaborò al Dizionario delle opere dei personaggi, fu segretaria a Roma di Leo Longanesi, del quale fu grande amica e per cui tradusse numerose opere di autori inglesi e francesi, tra i quali Flaubert e Baudelaire. Collaborò inoltre con moltissimi quotidiani e riviste: ‘La Gazzetta del Popolo’, ‘Il Messaggero’, ‘L’Osservatore Romano’, ‘Il Tempo’, ‘Il Borghese’, e fu autrice di libri di cucina, di articoli su pizzo e ricamo ospitati dalla rivista ‘Rakam’. Nel 1949 pubblicò Maddalena della Palude, nel 1955 Rotta a nord, con il quale vinse il Premio Napoli per la Narrativa e fu finalista al Premio Strega, I gioielli rubati nel 1958, nel 1965 Le Signore Barabbino, nel 1969 Taccuino di una donna timida e il saggio del 1962 I cristiani dimezzati, che fu dedicato al suo caro amico Mario Scarpato, un parroco di La Spezia. Fu anche autrice di moltissime favole, pubblicate a puntate su ‘La Gazzetta dei Lavoratori’ e di opere teatrali, tra cui Camicie Rosse, che scrisse in occasione del centenario dell’unificazione dell’Italia. Abitò soprattutto in tre case, a Cervo (in provincia di Imperia) dove abitò negli anni ’50, a San Bartolomeo di La Spezia dove trascorse l’ultimo periodo della sua vita in una bellissima villa che si affaccia sul Golfo di Lerici, e infine a Roma, dove aveva la sua “sede invernale”. Si sposò con lo scrittore americano Henry Furst nel 1967, anno che purtroppo coincise con la morte dello scrittore. Infine, nel 1980, completò un’opera che aveva iniziato a scrivere con Herny Furst, la biografia di Caterina de’ Medici, che verrà tradotta in moltissime lingue, tra cui il giapponese. Orsola aveva un grande talento per ascoltare le persone e per coltivare amicizie, aveva infatti moltissimi amici, come Anna Maria Ortese, Sibilla Aleramo, Maria Bellonci, Mario Soldati, Giuseppe Ungaretti, Ennio Flaiano, Federico Fellini, che era  suo grande ammiratore, Italo Calvino – a cui venne spesso accostata per il talento comune nello scrivere favole e per l’amore per la Liguria -, Leo Longanesi, che forse fu il suo più grande amico, Valentino Bompiani, e molti altri.

Flavia Piccinni. La bibliografia di Orsola Nemi è ricchissima, ma ancora oggi c’è molto di inedito. Ce lo racconta la nipote Isabella Rotta Gentile.

Isabella Rotta Gentile. C’è ancora molto lavoro da fare. Si tratta di brevi annotazioni scritte in forma diaristica che a mio avviso potrebbero ancora oggi avere un discreto successo editoriale. Orsola era una scrittrice che ha vissuto in un periodo difficile, in cui non era facile per una donna, soprattutto per una donna come lei, affetta da un grave handicap fisico, farsi strada nel mondo della scrittura. Era ancora più difficile per lei in quanto autodidatta e donna di destra, una donna cattolica che si trovava in un ambiente che non era considerato molto “in” all’epoca. Era una donna con un carattere molto forte, che ha vissuto da sola per metà della sua vita gestendosi fino all’ultimo in totale autonomia, una donna molto fiera, e tutto questo a mio avviso si riflette sui suoi lavori, dove troviamo la capacità di tratteggiare in pochi versi situazioni o stati d’animo, dove troviamo il suo lato più sentimentale, la sua fede, la descrizione della natura. Fra le sue opere,  quelle che le appartengono di più sono le poesie piuttosto che i romanzi. Ricordo benissimo il suo viso e ricordo che da bambina ero assolutamente incantata da Orsola, soprattutto per il candore della sua pelle. Un viso molto dolce ma allo stesso tempo forte, che sapeva diventare  molto duro in certi momenti. Quindi il viso di un angelo, sì, ma di un angelo che non si lascia raccontare tante storie.

«L’albero di mimose è morto per il freddo. Anche quella palma, molto bella, che l’estate scorsa sventagliava nobilmente con le sue foglie, il gelo l’ha bruciata, sembra un fantoccio di paglia annerita. È morto il bel gatto rosso tannino, che aveva gli occhi come l’ambra, la pelliccia fiammante e la voce da signore della notte. Amava il sole, le gatte e le battaglie con gli altri animali. Il perire, lo scomparire di una pianta o di un animale è un’ombra nera, una vera fine, e per questo, riempie d’orrore».

Flavia Piccinni. La passione per la natura torna sempre nei ricordi e nei sogni familiari. Ne sa qualcosa Maurizio Rotta Gentile, nipote di Henry Furst, che visse per tutta la vita a stretto contatto con Orsola e la ricorda così:

Maurizio Rotta Gentile.  Henry Furst e Orsola Nemi si conobbero nel 1938, in una biblioteca. Si sviluppò prima un rapporto di amicizia e di stima, soprattutto da parte di mio nonno che ammirava moltissimo le prime produzioni letterarie di Orsola, poi l’amicizia si trasformò nel 1939 in convivenza, e da quel momento io vissi insieme a Orsola e a Henry fino a quando la vita ce lo ha consentito. Il rapporto che Orsola aveva con le persone era sempre di comprensione, di studio, di analisi del carattere delle persone, era attenta ad ogni filo d’erba. Henry e Orsola si sono sposati quando ci eravamo già trasferiti a Roma, come coronamento di una vita trascorsa insieme. A Roma coltivarono amicizie all’interno di praticamente tutto il mondo letterario e giornalistico dell’epoca. Grazie a loro ho avuto l’occasione di conoscere il fior fiore della letteratura e del giornalismo italiano, come Indro Montanelli, Leo Longanesi, Mario Soldati (mi limito a citare solo i primi tre nomi che mi vengono in mente) e ogni incontro era un episodio da registrare, da descrivere, da raccontare. Durante la guerra ho vissuto con Henry e Orsola a Recco, in Liguria, in un’abitazione che poi nel 1950 abbiamo ceduto a Luigi Tenco e ci siamo spostati a Cervo, dove risiedo tutt’ora. Il nostro trasloco a Cervo credo sia stato uno dei più bizzarri che gli abitanti abbiano avuto modo di vedere. L’unica strada percorribile per raggiungere la nostra nuova abitazione era una mulattiera lunga due chilometri, e attraverso questa mulattiera abbiamo trasportato, tra le altre cose, i quindicimila volumi della biblioteca di Orsola e del nonno, e un frigorifero americano grande praticamente come un monolocale. Quindi costruirono una portantina in legno per trasportare in spalla questo frigorifero enorme e utilizzarono undici muli per trasportare tutti i libri, e dovettero costruire anche una portantina per Orsola che non era in grado di camminare su una mulattiera, perché era stata colpita dalla poliomielite all’età di cinque anni. Così sbarcammo a Cervo. Orsola aveva una gatta prediletta di nome Zinzina che un giorno, agli occhi di Orsola e del nonno, compì un miracolo. Orsola aveva lavorato per anni al saggio più importante della sua vita, il saggio dedicato alla vita di Caterina de’Medici, e il manoscritto che aveva richiesto anni di lavoro un giorno sparì. Quando il manoscritto scomparve facemmo tutte le ipotesi possibili per spiegarne la scomparsa: trafugato, bruciato da qualcuno che non apprezzava l’opera, visto che la nostra casa era frequentata da molti scrittori e giornalisti, finché un giorno Zinzina, saltando da una libreria a un’altra, fece cascare per terra un pacco di fogli. Era il manoscritto di Caterina de’Medici, che era stato messo inavvertitamente, non si sa da chi, in una posizione non facilmente visibile. Da quel momento tutti noi nutrimmo una sorta di “culto” per Zinzina che aveva salvato il manoscritto su Caterina de’Medici. Orsola aveva anche un falco che lei, vegetariana accanita, voleva convertire al vegetarianesimo. Il falco era un po’ reticente all’inizio, ma poi, per fame, iniziò a mangiare qualche pezzo di mela, oltre alla quaglia che gli portavamo giornalmente con la disapprovazione di Orsola.

Cervo

Cervo

«Nella casa di mia nonna c’era nella soffitta uno stanzone dove allevavano i bachi da seta. La porta era chiusa a chiave ma attraverso di essa si sentiva notte e giorno un continuo fruscio, come quello della pioggia sopra i rami degli alberi, erano i bachi che mangiavano le foglie del gelso. Con l’orecchio appoggiato alla porta potevo immaginare tutte le meraviglie che la parola “seta” può suggerire. Se vi rifletto, mi sembra di non fare altro anche adesso: origliare dietro una porta chiusa nella ricerca di trasformare l’indistinto brusio della nostra vita in qualcosa di prezioso».

Maurizio Rotta Gentile. Quando scriveva seduta alla  scrivania, Orsola era una donna piccola, perché la poliomielite non aveva consentito al suo corpo uno sviluppo armonico. Le sue gambe erano rimaste quelle di una bambina, mentre il resto del corpo era quello di una donna. Seduta appariva come una donna dalla quale sicuramente non ci si sarebbe aspettati una difficoltà di deambulazione. Stava sempre seduta alla sua piccola scrivania con la sua Lettera 22, che ancora conservo insieme al suo epistolario. Orsola scriveva prevalentemente di giorno, a differenza di Henry, che invece scriveva quasi esclusivamente la notte. Era una donna con una grandissima forza di volontà, prima citavo l’esempio del falco per darne un esempio, il voler addomesticare un animale selvatico come il falco. Aveva un forza incredibile, non voleva assolutamente che si parlasse della sua difficoltà di deambulazione, e non accettava nessun aiuto, anche quando viveva a Roma, dove capitava di prendere dei mezzi pubblici e l’impulso di aiutarla spingeva qualcuno a cercare di sorreggerla, lei rifiutava sdegnosamente qualunque tipo di aiuto; così come aveva rifiutato di ricevere il Premio Bagutta, perché era un premio letterario dato da donne a donne, e lei era molto contraria a questa divisione della letteratura per categorie di genere. La vita in famiglia era una vita armoniosa, una vita svolta a stretto contatto con gli animali, con i fiori, fatta di meraviglie giornaliere. Mio nonno diceva: «Il poeta è una persona che si stupisce ogni giorno della nascita di un filo d’erba».

Flavia Piccinni. Costante è il richiamo alla natura e agli animali, ai ricordi che hanno segnato tutte le persone che le stavano vicino, a partire da Isabella Rotta Gentile.

Isabella Rotta Gentile. Mi ricordo benissimo di quando dava da mangiare ai suoi gatti. Si alzava dalla scrivania dello  studio, prendeva il bastone, chiamava i gatti, andava in cucina, tutti i gatti della casa la seguivano uscendo dappertutto, dalle scaffalature, dalle librerie e la seguivano fino in cucina. A me ragazzina sembrava di vedere il pifferaio magico. Una volta arrivata in cucina preparava questo pastone per i gatti che aveva un profumo che non dimenticherò mai, e chiamava a raccolta tutti i suoi gatti che giravano per tutta la cucina e intorno alle sue gambe. Ogni gatto aveva un nome e una storia, e Orsola dialogava con loro, chiedendogli dove fossero stati, cosa avessero fatto, quindi il momento del pasto per me era un momento magico, durante il quale potevo ascoltare un sacco di storie. Il pasto per i gatti erano alici mescolate a tonno e riso, ed è un odore che ricordo ancora, e il profumo delle alici ancora oggi mi riporta con la mente al momento del pasto e rimane sicuramente l’odore per me più evocativo della mia infanzia.

Ritratto di una giovane Orsola Nemi

Ritratto di una giovane Orsola Nemi

«Ai nostri giorni si parla poco d’amore, si parla molto di sesso in verità, e anche le canzoni, nonostante le rime in “ore”, quasi sempre manifestano disagi e disturbi fisiologici che le voci dei cantanti, maschi e femmine, si sforzano di approfondire. Una nostra vecchia tata si inteneriva nel vedere i fidanzati che, diceva lei, le ricordavano tutte quelle belle gioie. Mi si dirà che la facilità di vedersi e di incontrarsi liberamente ha tolto ai giovani molte delle inquietudini e dei timori dei primi incontri, e che oggi un giovane o una ragazza poco indugiano fra le prime, innocenti delizie dell’amore. Io credo, però, che ancora vi siano ansie, sussurri, rossori, strette di mano che fanno tremare, incontri dove le prime parole sono tronche, insulse, confuse, e gli interlocutori vittime di una specie di abbagliamento interiore. Mi è capitato di vedere due veri innamorati romantici alcuni giorni fa in via Giulia. Lei stava alla finestra, dietro un’inferriata, tra vasi di gerani, lui la guardava assorto, tirava un vento gelido, ma loro non pareva che se ne accorgessero. Lei era una gatta a macchie rosse, bianche e nere, di quelle che gli inglesi chiamano “gatte tartaruga”, lui un soriano robusto».

Flavia Piccinni. Le parole che abbiamo appena sentito sono tratte dai diari inediti di Orsola Nemi, Diari in cui emerge perfettamente la personalità della scrittrice, il suo amore per la natura e per gli animali, la capacità di interpretare e di conoscere i tempi moderni. Ma perché Orsola Nemi è stata così dimenticata?

Maurizio Rotta Gentile. Perché era una donna fuori tempo. Dal punto di vista politico è stato dimenticato quasi tutto quello che aveva l’odore o era di destra. Lei poi scriveva su ‘Il Borghese’, su ‘L’Osservatore Romano’, quindi svolgeva un’attività professionale che la qualificava come persona di destra, e di una destra intransigente. Ha scritto un volume, I cristiani dimezzati, che è un volume di accusa verso lo scarso cristianesimo diffuso allora. Era una persona molto intransigente e non facile da conciliare, e quando incontrava persone altrettanto intransigenti erano scintille. Poi, pian piano, la destra è stata dimenticata e solo oggi è stata accettata a livello di poltrone di governo che devono appartenere anche alla destra in omaggio non tanto alla qualità delle persone, ma a uno schema di contrapposizione, che dà poi i risultati che abbiamo avuto in questi trent’anni.

Dal romanzo Rotta a nord: «Non l’hai visto [il mare] danzare intorno agli scogli? Non è una graziosa ballerina, certo, è piuttosto brutale, va su a volte come una torre e, quando crolla, fa uno strepito terribile. Non balla sempre di gioia, balla anche quando è furioso. E non l’hai visto quando è in amore, come si stende, mormora fra sé, prende colori che non ti aspetti: viola, verde, oro, perfino nero? Non l’hai visto quando si attrista, diventa di piombo, poi si copre di schiume bianche, che sono forse i suoi antichi pensieri, finché si impazienta, si densa, si alza, se li scrolla di dosso? Se tu vi tuffi la mano, subito te l’afferra, te la lambisce come una bestia affettuosa; se vi entri, ti stringe, ti accarezza da tutte le parte. Allarga le braccia e tocca i continenti più lontani, rovescia la testa, apre il petto, lascia che il sole si nasconda. La mattina, a volte, ti alzi, scendi alla spiaggia, lo vedi che sembra innocente, si trastulla con le alghe, coi granchi, col muschio che penzola dagli scogli.»

IV° puntata. Gianna Manzini

Giornalista. Buona sera signora Manzini.

Gianna Manzini. Buonasera.

Giornalista. Che bel gatto.

Gianna Manzini. Ci tengo molto, sono viziosissimma per questo gatto. Si chiama Milordino ed è un cincillà. Mi vuol chiedere qualche altra cosa?

Giornalista. Vorremo che ci parlasse un po’ di lei.

Gianna Manzini. Senta, a questo proposito mi ricordo che una volta mi hanno domandato se mi pareva che nell’Inferno Dantesco mancasse un peccato e un castigo. Io allora risposi che mi pareva che Dante si fosse dimenticato degli esibizionisti. Ora, non vorrei proprio essere io a dover inaugurare quel girone Dantesco rispondendo in modo vanitoso alle sue domande.

Giornalista. Siamo certi che non lo farà.

La scrittrice Gianna Manzini

La scrittrice Gianna Manzini

Flavia Piccinni. Quella che avete appena sentito è la voce della scrittrice Gianna Manzini. L’intervista è stata registrata più di quarant’anni fa, e vi figura una splendida donna con i capelli ingrigiti, gli occhi grandi e luminosi, l’espressione severa ed elegantissima. Gianna Manzini appartiene a quel ristrettissimo cerchio di scrittrici e giornaliste di cui si dovrebbe continuare a parlare, eppure è stata completamente dimenticata, messa in un cassetto della memoria con i suoi meravigliosi e difficilissimi romanzi. È stata lasciata su uno scaffale insieme ai suoi scritti di moda, pungenti e capaci di racchiudere il mondo in un aggettivo. Nella vita di Gianna Manzini c’è il giornalismo e c’è la scrittura, c’è un ‘Italia in bianco e nero a cui non si deve guardare con nostalgia, ma con gli occhi della scoperta. Ma chi era Gianna Manzini? Ce lo racconta lei stessa in una preziosa intervista recuperata dall’archivio Rai.

Gianna Manzini. Sono nata a Pistoia, una piccola città di provincia, e quella piccola città torna tante volte non solo nei miei scritti ma anche nelle mie memorie, e tutto sommato direi che mi aiuta, perché tanto più io mi allontano da quel periodo, e tanto più ritrovo cose che sono nutrientissime e per il mio lavoro e per una maggiore conoscenza di me e magari degli altri. Poi ho studiato a Firenze dove mi sono laureata in Lettere con una tesi su Pietro Aretino e contemporaneamente alla tesi scrivevo il mio primo romanzo, Tempo innamorato, dopo mi sono trasferita a Roma. L’appetito viene mangiando e dopo il primo è arrivato  il secondo, fino ad arrivare ad oggi. Mi pare che oggi i miei interessi, o meglio, la mia fame di lavoro vada aumentando col passare del tempo. Non so se questo capiti a tutti, forse sì, forse è il mestiere che si va raffinando, rendendoci sempre più consapevoli e padroni del nostro lavoro, ma noto questo, che non ho mai avuto tanta voglia di lavorare quanto ora, specialmente dopo l’ultimo romanzo, che si intitola Un’altra cosa. Naturalmente sto già pensando a quello che verrà, ed ho già scritto qualche pagina.

Flavia Piccinni. Com’è facile intuire, Gianna Manzini era instancabile, la sua produzione era legata all’infanzia, a quella fragile salute che le aveva segnato la vita. Ce la racconta la studiosa Sarah Sivieri, che a Gianna Manzini ha dedicato uno splendido libro, Scacciata dal Paradiso, pubblicato nel 2012 da una piccolissima casa editrice marchigiana, Hacca, una raccolta dei migliori interventi di Gianna Manzini sulla moda, sui giovani e sui tempi che la videro protagonista.

Sarah Sivieri. La vita di Gianna Manzini viene segnata durante l’infanzia da un evento molto importante: la separazione dei suoi genitori. Una separazione particolare, perché il padre, di famiglia nobile e che si era sposato con la figlia di una delle famiglie più in vista di Pistoia, a un certo punto abbandona tutto per seguire l’ideale anarchico, abbandonando l’azienda da lui stesso fondata con il cognato per dedicarsi a questo ideale. La famiglia della madre di Gianna Manzini fa una forte pressione affinché abbandoni il marito, che nel frattempo si era ridotto a vivere praticamente in povertà. Quindi i genitori si lasciano ma Gianna Manzini rimarrà sempre tra due fuochi, perché il padre e la madre sono costretti a lasciarsi pur amandosi molto, e questa situazione verrà poi descritta nel romanzo Ritratto in piedi, che è il ritratto di questo padre molto amato e poi abbandonato, infatti il padre, proprio perché anarchico, verrà confinato dal regime fascista a Cutigliano dove troverà la morte, e a Gianna Manzini resterà sempre questo fortissimo rimorso. Dopo questo primo evento traumatico, seguono degli anni in cui Gianna Manzini vive insieme alla madre a casa dello zio materno, successivamente, negli anni ’20, si trasferirà a Firenze, dove entrerà in contatto con il gruppo degli intellettuali di ‘Solaria’. Anche se  rimarrà una figura un po’ defilata nel gruppo, questi per lei sono gli anni più importanti per la sua formazione, dove scoprirà il romanzo e, soprattutto grazie a ‘Solaria’, il romanzo modernista. Resterà a Firenze fino alla soglia della Seconda Guerra Mondiale quando, dopo aver chiuso il matrimonio con il primo marito, Bruno Fallaci, zio di Oriana Fallaci, si trasferirà con il suo nuovo compagno (con cui resterà per tutto il resto della  vita), il critico d’arte Enrico Falqui, a Roma. Più che Firenze, per Gianna Manzini è la campagna toscana ad essere importante, perché in un  lavoro sul paesaggio, afferma che la nitidezza della sua scrittura, che si scandisce sempre per linee quasi geometriche, nasce proprio dalla vista di quei colli toscani, dalla campagna intorno Pistoia e Firenze; per cui lei guardando la perfetta disposizione dei campi e degli alberi nei filari, ha istintivamente adoperato questo tipo di scrittura. Scrittura che è molto simile a quella di Virginia Woolf, che lei riconosce come suo maestro, sempre divisibile per linee geometriche, dove troviamo quasi sempre delle figure che ritornano.

Flavia Piccinni. I libri di Gianna Manzini diventano con facilità protagonisti di un tempo. Lo ricorda anche la scrittrice Dacia Maraini.

Dacia Maraini. Era una scrittrice intimista, molto attenta al rapporto della psiche con la natura, con il mondo, quindi questa sua sensiblerie che Elsa Morante prendeva un po’ in giro era allo stesso tempo la sua forza.

Flavia Piccinni. Ma oltre ai libri, c’è anche il giornalismo, e quello di Gianna Manzini con la carta stampata è un rapporto ambivalente. Sarah Sivieri ha studiato a lungo questo amore-odio,  che mette in luce tutte le contraddizioni di questa donna.

Gianna Manzini

Gianna Manzini

Sarah Sivieri. Gianna Manzini aveva un rapporto di amore e odio con il giornalismo. Aveva iniziato a scrivere  molto giovane racconti, spesso scritti a quattro mani con l’allora marito Bruno Fallaci, che venivano pubblicati su ‘La Nazione’, e per tutta la vita scrisse moltissimo su giornali e riviste, pubblicando sia articoli che racconti. È sicuramente un’attività che da una parte trova gratificante, perché le piace avere la possibilità di potersi esprimere con un mezzo diverso dal romanzo, che le permette di sperimentare altri tipi di linguaggio, ma dall’altra parte a volte questo impegno diventa molto gravoso, tant’è che lei parlerà di «disperati facchinaggi giornalistici», perché il giornalismo le consentiva anche di avere  entrate di carattere economico. Oltre che con la carta stampata Gianna Manzini collaborerà molto con la radio, sia tenendo rubriche di moda che con interventi critici sul lavoro di altri scrittori. È un’esperienza che sicuramente la gratifica, ma che le sottrae  molto tempo che  avrebbe preferito occupare scrivendo romanzi.

Flavia Piccinni. Ma adesso ascoltiamo le parole di Gianna Manzini. In fondo, una scrittrice vive soprattutto attraverso le sue lettere, e questa è una splendida annotazione tratta dal suo diario inedito, conservato presso l’Archivio del Novecento del Dipartimento di Studi Filologici Linguistici e Letterari dell’Università La Sapienza.

7 maggio 1954. «Fra poco dovrebbe arrivare Piovene per un’intervista che apparirà su ‘Epoca’. Vorrei arrivare a questi motivi costanti miei: il sentimento della dignità dello scrittore, l’errore che molti compiono per distinguersi fino a rasentare la caricatura e soffocare la personalità, è un differenziarsi ossessivo ai danni della dignità. Veramente originale è invece ciò che è originario, comune a tutti, umano. Il compito dello scrittore non consiste nel differenziarsi ma nell’intensificare la vita propria, allargando la comprensione di quella altrui. Dato questo mio atteggiamento, non finisco di stupirmi quando mi dice che io scrivo per pochi, e questo stupore aumenta per il fatto che io, diciamo così, intellettuale, non ho mai sentito nel non intellettuale “l’altro”. Io non sento che il prossimo e mi sembra che questa dissonanza innegabile tra l’intellettuale e il non intellettuale sia dovuta più che a una discrepanza integrale, alla maniera che ha di solito l’intellettuale di trattare il prossimo. Si dice che la novità offende, che l’intelligenza offende. Va bene. Ma ad offendere non sarà piuttosto il modo in cui si vuol far valere o semplicemente presentare questa novità? E cioè un modo di guardarsi intorno? Per l’intellettuale, o forse più precisamente per gli artisti, tutti i giorni nascono festivi, perché lavorare è una festa, e lui lavora sempre, salga in autobus o faccia la fila a uno sportello della posta, vede, annota tra sé e sé, si rallegra di capire, capitalizza. Perché non sentire questo enorme privilegio con un tantino di benevolenza verso il prossimo? Irradiano un sorriso, ma un sorriso facile, comunicativo. Ecco qua, io guardo ad esempio  un animale e lo capisco, in modo che lo spettatore frettoloso è come se glielo regalassi: quasi non si era accorto che esistesse, ora se ne impossessa, lo fa suo, e questo gli dà un’allegrezza che diventa la forma più vivace e più libera della gratitudine. Tutto ciò non è un vincolo, un bel vincolo, fra me e il non intellettuale o il lettore comune? Due ragazze abilmente scapigliate, con nella schiena un’arrogante sicurezza. Scarpe senza tacco, nuca prepotente, mento aizzoso, parlano fitto fitto in una piccola galleria di fronte a una parete di quadri, quadri che indubbiamente uno shock lo danno, sia che rifiutino la realtà, sia che alla realtà entrino nel cuore, come  una serie  di coltellate. Tendo l’orecchio: “castoro, castoro, champagne, quasi bianco”. Beh, non me l’aspettavo, e in un gruppetto durante l’intervallo di un concerto: “Per me la lontra ha tutti i requisiti”; e a Villa Borghese in una di quelle ineffabili mattinate, che sospendono gentilmente il miraggio del Natale, fra alberi che si gloriano ancora dei colori dell’autunno, lui e lei, camminando a braccetto su un tappeto di foglie: “Non trovi che la volpe stia tanto bene al viso?” Ebbene se anche lei e lui, giovanissimi, in una mattina come questa, bilanciata tra ricordo e miraggio, con una luce che sembra l’alone di un bel pensiero, parlano di pellicce, vuol dire che questo è il discorso di rigore, e io ho l’obbligo di affrontarlo, ed è la volta buona che se sbaglio con un’indicazione, se sgarro con un aggettivo, la mia reputazione di competente in fatto di moda rimane compromessa».

Flavia Piccinni. La moda è protagonista. Questa però non è una novità. All’epoca accadeva spesso che le donne venissero destinate dai redattori e dai capiredattori allo stile e alle buone maniere. In ogni caso, fortunatamente, per Gianna questa missione non viene intesa unicamente come il racconto frivolo e privo di significato  di abiti e accessori, ma viene vissuto come una potenzialità per il nostro paese. Quindi largo spazio alle sarte e alle innovazioni. Vero,  Sarah Sivieri?

Sarah Sivieri. La caratteristica dei suoi scritti è l’interesse nel superare quello che è strettamente effimero, nel senso che Gianna Manzini si occupa sicuramente delle collezioni della donna del 1947 piuttosto che del 1968, però quello che lei va a ricercare all’interno dei suoi scritti, sono proprio quegli ideali di buon gusto e di eleganza che sono costanti nel tempo e che si possono individuare anche al di là di quelli che sono i mutamenti che ovviamente la moda richiede. Quindi più che una cronaca di moda sono consigli di eleganza.

Flavia Piccinni. L’eleganza è una delle caratteristiche principali che mettono in luce e contraddistinguono Gianna Manzini. Tutti quelli che l’hanno conosciuta o che semplicemente l’hanno incontrata per un momento, ne ricordano l’aspetto fisico e la precisione degli abiti e degli accessori, anche Dacia Maraini.

Dacia Maraini. Gli scrittori all’epoca si incontravano anche senza conoscersi bene, perché c’erano dei luoghi che erano luoghi di incontro comuni. Non ho mai avuto un rapporto diretto con Gianna Manzini, però la incontravo spesso in questi posti, e mi era sempre sembrata nella sua magrezza una persona molto elegante, che ci teneva a essere sempre molto “a posto”, non era mai trascurata o trasandata, o almeno, io l’ho sempre vista così. Non lo ho mai vista con una calza smagliata, una scarpa sporca, era molto attenta al modo in cui si presentava, ma non in maniera ossessiva o stupida. Come ho detto non ho mai avuto un rapporto diretto con lei, ma spesso ascoltavo da altre persone dei racconti su di lei, come ad esempio quello di Elsa Morante, che una volta mi disse che Gianna andò da lei dicendole: «Ti devo fare un regalo bellissimo!». Elsa la ringraziò aspettandosi una scatola di cioccolatini o qualcosa del genere, invece Gianna le disse: «Ti regalo questo raggio di sole che in questo momento sta entrando dalla finestra». Elsa la ricordava sempre come una frase un po’ ricercata, un po’ di maniera, ma in fin dei conti graziosa, anche poetica se vogliamo.

Flavia Piccinni. Anche Lorenza Trucchi ricorda l’eleganza e il saper stare al mondo di Gianna Manzini.

Lorenza Trucchi. Quando conobbi Gianna Manzini già all’epoca era considerata la più importante scrittrice italiana. Lei era sposata con Falqui, e abitavano a Roma in viale Liegi in questa casa piena fino al soffitto di libri. Era una donna molto elegante e gentile che teneva una rubrica di moda su ‘La Fiera Letteraria’ che usciva tutte le settimane. Allora non c’era ancora la rubrica di moda di Irene Brin, quindi credo che fosse una cosa unica, inedita all’epoca in Italia, e questo probabilmente la favoriva negli acquisti in alcune sartorie romane. Avevamo due amiche in comune, Maria Luisa Astaldi, la fondatrice della rivista ‘Ulisse’, e Paola Masino, scrittrice e moglie di Massimo Bontempelli, ed erano tutte vicine di casa, vivevano tutte nell’arco di non più di 200 metri l’una dall’altra.

25 aprile 1954. «Dopo tanto ho ripreso in mano questo quaderno per fermare un’impressione di ieri sera, ascoltando una mia trasmissione alla radio, ‘L’almanacco dei sogni’. È il sogno di Paola Masino. È venuto bene, ma nel mio testo nella parte, diciamo così, critica e interpretativa, mi ha dato noia una parola, “fuga”. Non che essa non corrisponda a un argomento, non che sia sbagliata, la massaia della Masino attraverso quei sogni compie fughe vertiginose nella morte e nello spazio, ma è la parola in sé che è diventata di uso troppo spicciolo, abusata, sembra ormai falsa. Non c’è forse nessuno di noi che non veda in moltissimi dei nostri gesti una fuga? E non è che in realtà tutto non inviti alla fuga dalla società, dalla famiglia, dal nostro tempo, talvolta dalla vita stessa, ma la parola  è diventata una specie di tappabuchi, una di quelle parole impugnate dai simulatori di intelligenza, parole troppo facilmente risolutive. No, bisogna bandirla, e non certo sostituendola con “evasione”, peggio con peggio. A questo punto mi accorgo che il sospetto, la ripugnanza o il rifiuto, trattandosi di una parola, non possono limitarsi a ragioni di gusto o di atmosfera. Ecco, io respingo questa parola anche perché non voglio più scappare da nulla, voglio accettare e affrontare, non per spirito di sacrificio o per rassegnazione, ma per il fascino che un dato momento anche l’orrore può ispirare. A furia di intelligenza di cuore, procedendo di scoperta in scoperta, riuscire non dico a subire, a capire, ma ad innamorarsi di tutto ciò che è fra terra e cielo, al margine di un rapporto, o nel profondo di un rapporto, nel vivo di un’esperienza,che  non eravamo ancora riusciti a scorgere. Sì che gridare, protestare, magari maledire, trovarsi sui carboni ardenti, ma salvare quel poetico discernimento o quella forza morale o quell’ardimento che ci fa dire: “Io rimango, io non ho ancora finito di capire, di imparare,di rendermi conto, di vedere, di scoprire, per cui devo rimanere. Io sono oltretutto un testimone spesso abbagliato, spesso  folgorato da ciò che vedo, un testimone talvolta perplesso, ma un testimone e un testimone non può astenersi”. Niente fuga dunque, se non nel senso musicale e puramente stilistico. In rivolta contro la furberia, contro l’avarizia, contro l’ingratitudine preventiva, ecco che mi trovai ad eccedere nella fiducia, che la fiducia traboccò in un credito esorbitante fatto agli altri e alla vita stessa, si snaturò in una forma esaltata della speranza, finché si risolse nell’attesa di un miracolo. È il miracolo che mi innamora, è il miracolo che aspetto, di più: mi illudo che concependo e inventando possibilità inaudite, si potenzino energie e valori dormienti. Io non ho orecchio, da bambina me ne disperavo, nei cori in classe muovevo soltanto le labbra e mi dispiaceva tanto, presente e appartata, il mio bisogno di socievolezza e di comunanza se appena si esprimeva nella partecipazione ad un filo di voce, provocava un guasto, mi faceva additare come quella che ha sciupato tutto. Ma una maestra, mi colmava con un’assurda fiducia, mi disse che se stavo tanto attenta, poi senza dubbio…Da allora mi accadde di cantare spesso in sogno, un canto puro, che poi sovrastava spesso le mie giornate, e se oggi ritrovo nella mia prosa qualche traccia musicale, penso che ciò dipenda dalla generosa astuzia di quella maestra e dal mio cantare in sogno. Una volta venne a casa nostra un ladro, fratello di una donna di servizio, uscito forse quel giorno stesso di prigione. Dovevo scrivere un biglietto da consegnargli e lo lasciai in salotto. Mi rincorse quasi sgomento: “Solo mi lascia? Solo?” E guardava le insulse bricicche dei soprammobili, credeva che mai più nessuno si sarebbe fidato di lui, o che di qualsiasi malanno sarebbe stato facile incolparlo. Può darsi che la fiducia sia un’espressione superiore della serenità, e l’attesa del miracolo effetto di disperazione. Ma Dio mio, i nostri tempi meritano, comportano quella distensione, quella fermezza, quel sorriso del cuore di cui ha bisogno la fiducia. Miracoli occorrono per smagare la crudezza della vita, e siano piccoli, modestissimi o travolgenti o folgoranti, gli uni colmandoci di sconvolto stupore, gli altri sconvolgendo e irradiando, ci aiuteranno a dissipare l’ossessione dell’ultimo dramma, o il presentimento di quello imminente, occorrono e anche avvengono. Il segreto sta nel saperli attrarre o semplicemente riconoscere, c’è chi di un prato non scorge mai un quadrifoglio, c’è chi ne mette insieme addirittura un mazzolino. In una giustificata, assennata disposizione di diffidenza, a questi dannati tempi, manca il respiro, rattrappito ogni slancio fra le mille accortezze che tessono e quasi calamitano la ragione che avremmo domani, avendo prevista l’altrui inadempienza, malizia o malafede, il cuore si raggela e perde ogni incanto. Meglio sbagliare cento volte per avere immeritatamente accordato fiducia, che una volta sola per averla sottratta a chi ne era degno».

Flavia Piccinni. Abbiamo appena sentito un passo da Motivi, incluso in Scacciata dal Paradiso, e viene da domandarsi perché Gianna Manzini, una così arguta e feroce narratrice del tempo, sia stata completamente dimenticata. Una risposta prova a darla Sarah Sivieri.

Sarah Sivieri. Secondo me per la complessità della sua scrittura. A lei non piaceva assolutamente essere considerata una scrittrice “difficile”, però effettivamente i suoi romanzi risultano oggi difficilmente fruibili da un pubblico molto ampio. Soprattutto perché il fine ultimo che Gianna Manzini vedeva nella letteratura, era quello di cogliere la vita al di là delle apparenze, e per fare ciò forzava le strutture del romanzo, quindi nella sua scrittura è molto difficile trovare dei testi che abbiamo una linea di svolgimento con un prima e un dopo facilmente identificabili. Sono sempre strutture, come dicevano prima, complicate e geometriche e forse questo ha fatto anche pensare agli editori che fosse una scrittrice difficilmente vendibile. Anche la sua scelta dei vocaboli, il suo lessico, è bellissimo ma è obbiettivamente molto complesso. È anche vero che ogni tanto vengono proposti delle riedizioni dei suoi romanzi, ma sempre in tirature molto piccole e non particolarmente semplici da raggiungere per chi non è un addetto ai lavori. Ad esempio Ritratto in piedi è stato ripubblicato nel 2011 da una piccola casa editrice, L’Ortica, e anche La sparviera è stato ripubblicato dalla Libreria dell’Orso nel 2005 ma le copie a disposizione sono pochissime e molto difficili da ottenere.

Flavia Piccinni. Fa un po’ paura pensare che una grande personalità come Gianna Manzini possa scomparire così, che sia così facile dimenticare ed essere dimenticati.

Gianna Manzini. Il silenzio oggi è una forma sbrigativa di eliminare discussioni, contrasti, una specie di avarizia di cuore. Qualche altra volta invece è l’avidità della vita che porta a non volere indugiare, a non dare spiegazioni o a riceverne. E questo fa sì che si creino delle barriere del silenzio, delle barriere che possono diventare drammatiche, insormontabili, che possono davvero formulare degli equivoci formidabili, sia familiari che extra familiari, infatti si insiste sempre sulla mancanza di dialogo. Quello a cui si aspira oggi è ritrovare un dialogo.

Ascolta le puntate di ‘Passioni’.

FLAVIA PICCINNI, (Taranto, 1986) nel 2005 ha vinto diversi premi letterari, fra cui Subway Letteratura e il Premio Campiello Giovani. Ha curato due antologie, e pubblicato i romanzi Adesso Tienimi (Fazi, 2007) e Lo Sbaglio (Rizzoli, 2011). Ha curato la riscoperta e la riedizione del romanzo perduto di Irene Brin, Olga a Belgrado, (Elliot Edizioni, 2012), per il quale ha firmato anche una postfazione. Sempre a Irene Brin ha dedicato un lungo audioreportage per Radio3Rai e un documentario. Collabora continuativamente con numerosi giornali fra cui la Repubblica, Elle, Gioia. Ha scritto su ‘Il Riformista’, ‘La Lettura’ e ‘Il Venerdì’, ‘Il Fatto Quotidiano’. Fa parte della redazione di ‘Nuovi Argomenti’. Collabora con Radio3 Rai per la quale ha firmato le inchieste audio La Calabria è il Mondo (con Anna Mazzone, 2011), Viaggio in Sardegna (con Simone Caltabellota, 2012) e Apulia (2012). È stata ideatrice, autrice e conduttrice di Frequenze Corsare, in onda sulla WR8 di Radio Rai. Il suo ultimo libro è La mala vita (Sperling&Kupfer, 2012). Il suo ultimo audio documentario è Italia-Romania: in viaggio con le badanti (Menzione Speciale della Giuria al Bellaria Film Festival 2013, Premio Marco Rossi come miglior audiodocumentario). È ideatrice e direttrice di Audiodocumentari in città, festival di audiodocumentari.
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