Paul Krugman

Siamo in una seconda Belle Époque

da ''The New York Review of Books''
ECONOMIA: Il vincitore del Premio Nobel per l’economia Paul Krugman recensisce Capital in the Twenty-First Century di Thomas Piketty, uno studio fondamentale sul tema della diseguaglianza, grazie al quale «non parleremo più di ricchezza e diseguaglianza nello stesso modo in cui eravamo soliti farlo».
THOMAS PIKETTY, Capital in the Twenty-First Century, tradotto dal francese da Arthur Goldhammer, Belknap/Harvard University Press, pp. 685, $ 39,95

Thomas Piketty, professore alla Paris School of Economics, non è un nome famoso, anche se  potrebbe diventarlo dopo la pubblicazione in inglese della sua magnifica, ampia meditazione sulla diseguaglianza, Capital in the Twenty-First Century. Il suo impatto comunque è profondo. È divenuto luogo comune dire che stiamo vivendo in una seconda Età dell’Oro – o, come piace dire a Piketty, una seconda Belle  Époque – caratterizzata dall’incredibile crescita “dell’un percento”. Ma è diventato luogo comune solo grazie al lavoro di Piketty. In particolare, lui e alcuni suoi colleghi (in particolare Anthony Atkinson ad Oxford ed Emmanuel Saez a Berkeley) hanno aperto la strada a tecniche statistiche che hanno reso possibile tracciare la concentrazione di reddito e benessere partendo da molto indietro nel passato – fin dagli inizi del ventesimo secolo in America e Inghilterra, e fin dal chiudersi del diciottesimo secolo in Francia.

 

Il risultato è stata una rivoluzione nella nostra comprensione delle tendenze di lungo termine della diseguaglianza. Prima di questa rivoluzione, la maggior parte delle discussioni sulla disparità generalmente ignoravano i molto ricchi. Alcuni economisti (per non parlare dei politici) cercavano di far tacere qualsiasi riferimento alla diseguaglianza: «Tra le tendenze che sono dannose per le economie sane, la più seducente, e secondo me la più velenosa, è quella di concentrarsi sulle questioni della distribuzione del reddito», ha dichiarato nel 2004 Robert Lucas Jr. dell’Università di Chicago, il macroeconomista più influente della sua generazione. Ma anche quelli che in qualche modo desideravano discutere della diseguaglianza, si era concentrati sul divario tra i poveri e la classe operaia da una parte, e quelli semplicemente benestanti dall’altra, non prendevano in considerazione i veramente ricchi – si concentravano sui laureati i cui redditi superavano quelli dei lavoratori  meno istruiti, o sul confronto tra il benessere del cinque per cento più ricco della popolazione e la situazione economica del cinque per cento più povero, e non sui guadagni in crescita esponenziale dei dirigenti e degli uomini di banca.

Il libro "Capital in the Twenty First Century"

Il libro “Capital in the Twenty First Century”

È arrivata perciò come una rivelazione la scoperta di Piketty e dei suoi colleghi che i guadagni dell’oggi famoso “un percento”, e di gruppi ancora più ristretti, sono in realtà la  questione principale nella crescita della diseguaglianza.  E questa scoperta si è accompagnata a una seconda rivelazione: parlare di una seconda Età dell’Oro, che sarebbe potuta sembrare un’iperbole, non era per nulla tale. In America in particolare la quota di reddito nazionale che raccoglie l’un percento più ricco della popolazione ha seguito una traiettoria ad arco a forma di U. Prima della Prima Guerra Mondiale l’un per cento raccoglieva circa un quinto del reddito totale, sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. Dal 1950 quella quota fu ridotta di più della metà. Ma dal 1980 l’un per cento ha visto la sua quota di reddito risalire nuovamente – e negli Stati Uniti è tornata al livello che aveva un secolo fa.

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