Ferdinando Balzarro

FICTION: “Bagliore. La vita vista dalla morte”

Bagliore. La vita vista dalla morte Sovera edizioni

 

Il romanzo:

Cinquantatrè anni, piena efficienza fisica, cinico, egoista, spregiudicato, immorale, amante del bello e del rischio, il protagonista conduce una vita piena di interessi, di sfide, amori tormentati, passioni estreme, successi sportivi. Per puro caso scopre di essere portatore di una subdola e grave patologia cardiaca che se non operata, nel giro di breve tempo, lo porterà alla fine. La consapevolezza di non poter più condurre l’esistenza secondo il suo stile, l’inevitabile approssimarsi della vecchiaia, la fine annunciata dell’unico amore che lo ha coinvolto, lo porterà a scegliere, rifiutando l’intervento chirurgico, la via della morte. Scelta ancora una volta dettata da un estremo atto narcisistico, di orgogliosa volontà di dominare anche la sconfitta.

Gli stralci a seguire, in corsivo, fanno parte del romanzo “Bagliore. La vita vista dalla morte”, e sono alternati ai commenti dell’autore, quelli in stampatello, che si trovano nel secondo libro “Bagliore 2. Quando una vita non basta”, edito dalla Mediterranee edizioni.

Stralci dal romanzo:

Se le cose fossero andate come dovevano andare, in questo momento sarei a parlarvi – anzi a scrivervi – dall’aldilà.

Non è mai accaduto a un libro di essere scritto dall’autore solo dopo la sua accertata morte.

Questo infatti il curioso incipit del mio libro d’esordio immaginato come fosse stato composto solo dopo il mio avvenuto decesso. Ma le cose non funzionarono come tutti si aspettavano. Il cuore, incredibilmente, affrontò i ripetuti veementi assalti delle aritmie ventricolari, per cui il mio intento di lasciare una sorta di confessione a cielo aperto dedicata a chiunque si trovasse alle prese col mio diario di una vita vista dalla morte, cadde rovinosamente innanzi alla realtà (per certi versi benvenuta) della mia imprevedibile sopravvivenza. Nulla osta che il curioso “esercizio” letterario, venne assai ben accolto dal pubblico il quale, al di là che io fossi effettivamente morto o beatamente sopravvissuto, apprezzò l’inconsueto coraggio di pubblicare una precisa confessione destinata al giudizio più o meno severo del lettore. Ci sarebbe da aggiungere la mia furba volontà di andare a pizzicare corde umane assai sensibili che vanno dal pruriginoso voyeurismo al gustoso pettegolezzo. Infatti, cosa si può sperare di meglio se non leggere in vacanza, sotto l’ombrellone, parti anche scabrose e immorali e peccaminose di una confessione. Pensiamo a quei sacerdoti che quasi tutti i giorni si sentono riversare addosso i peccati di gola e di lussuria, con tutti quei tradimenti e tanto di particolari fin troppo espliciti, allora lui, il prete, già sente il sudore colare lungo la schiena e il sesso indurirsi tra le cosce, poiché è tutto talmente eccitante che neppure un uomo di chiesa ce la può fare a resistere, così a un certo momento non si sa più chi è il peccatore, quello che si confessa o quello che presto lo assolverà nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo? Ma inutile divagare quando il tempo è così scarso e così tante sono le cose che mi accingo a raccontare.

Ferdinando Balzarro

Controlla il tuo stupore e, sopratutto, la tua incredulità. Infatti niente è impossibile nella stupefacente condizione del defunto. L’impossibile esiste solo nella vita, ma ora sono morto e nulla per me è irrealizzabile. Non ci credi? Vuoi una prova? Ma no, no, lo so che non dubiterai mai di me ora che non sono più. Da vivo sì, da vivo mentivo moltissimo e a tutti. Sapevo, padroneggiando l’arte del racconto, tant’è che risultavano più interessanti e credibili le mie spavalde bugie, piuttosto di talune impacciate perfino soporifere verità.

E tutto ciò senza provare il minimo imbarazzo o chissà quale sconvolgente senso di colpa. Di quanti atroci indefinibili malesseri essi sono responsabili. Quanti danni ha inferto ai nostri fragili equilibri di adolescenti il famigerato senso di colpa, quanti complessi, quante inspiegabili inibizioni. Persino la più innocente ricerca della felicità può diventare una colpa. Perché io sì e lui no? Perché io mangio quello che voglio tutti i giorni e vado a feste e a pranzi e lui nel frattempo muore di fame?

Domande inutili a cui neppure l’aldilà darà risposta. A proposito! Mi preme rivelarvi che l’aldilà non esiste. Non esiste l’orrido e penitenziale inferno. Non esiste il contemplativo, beatificante affatto noioso paradiso. Non si può neppure immaginare cosa veramente sia il nulla, il silenzio cosmico, l’assoluta essenza di tutto. Ma allora i morti, i morti dove sono? Eccolo lì l’errore. Il banale errore che l’aldilà sia un luogo. Molto più realisticamente i defunti non hanno bisogno di nessuna area che li comprenda. I morti, molto semplicemente, non “sono”. Tutta la vita materiale si basa sul semplice principio di esserci o non esserci, di esistere o non esistere. I morti non occupano spazio, tuttalpiù continuano a sopravvivere per un po’ nella mente dei loro cari, sino a quando anch’essi saranno scomparsi, e allora? Allora sarà solo il tempo dell’oblio. Inoltre ci tengo a far notare che questo non essere, non esistere, non è un’esperienza del tutto nuova. E’ già stata appannaggio di tutti noi l’Era del non esistere. Tutti quanti ci preoccupiamo di che cosa ci sarà dopo la morte, stranamente nessuno si pone il problema di cosa ci fosse stato prima. Ebbene: prima c’era esattamente la stessa cosa. Una zona oscura inerte e indifferenziata, una vera e propria frontiera del nulla. La vita è solo uno spazio luminoso fra due ombre (Vigny). La vita un fugace bagliore nel buio intenso di una notte senza fine.

C’è da osservare che la trovata del defunto che scrive dall’oltretomba non poteva durare a lungo anche se come espediente per tracciare dall’alto la mia biografia, malgrado la sua incredibile assurdità, non era male. Nessun problema di cronologia temporale, nessuna preoccupazione di disattendere la “consecutio” e, soprattutto, nessun rischio di essere contraddetto. Infatti, chi si azzarderebbe mai a contraddire colui che è passato a miglior vita?

Ma adesso, senza ulteriori precisazioni o inutili indugi, proseguirò questa ormai celeberrima confessione, alternando i brani (riveduti e corretti) scritti di mio pugno quando mi trovavo nell’aldilà (utilizzando il corsivo) ad altri, composti sempre da me, nella normale condizione di uomo vivo anche se non proprio vegeto. Potrò in tal modo rifarmi alle autentiche e vivide esperienze di mezzo secolo dedicato al karate, potrò illustrare i primi passi nella via della “Maestria” (che è la via il “Do”, che ho scelto di percorrere sino all’ultimo giorno) potrò parlare delle mie grandi passioni, tutte quelle passioni che hanno innervato le diverse stagioni dell’esistenza. Con la scusa di esser morto – quindi più idoneo alla comune indulgenza- racconterò tutto di me. Con il pretesto di esser vivo, potrò esprimere pareri attuali, cavalcare l’arte dei poeti, degli scrittori romantici, ma anche stupire con brani gelidi, affilati, provocatori, e con essi costeggiare territori di tragedie inimmaginabili ma assolutamente vere.

Giunge prima o poi il momento in cui a ognuno è dato scoprire chi egli sia veramente e cosa in pratica debba fare affinché le su personali aspirazioni possano finalmente concretizzarsi. Momento decisivo, fallendo il quale, si rischia la frustrante condizione di vivere una vita non nostra, una vita impigliata nel futile standard del più tedioso quotidiano. I volti lunghi e grigi, tipici delle persone incontrate di prima mattina mentre si recano al lavoro, testimoniano eloquentemente quello stato di sistematica alienazione di cui soffre la maggior parte dell’umanità causa l’assoluta mancanza d’interesse riguardo ciò che quotidianamente stanno predisponendosi a fare. Il disprezzo latente per i minuti e le ore, per i giorni e le settimane, per i mesi e gli anni “impiegati”a far cose nei cui confronti non sussiste il minimo interesse o entusiasmante passione, fanno crescere in forma esponenziale le aspettative di coinvolgente felicità attribuite alle tanto sospirate vacanze. A questo punto il grande inganno si è perfettamente consumato.

Il supposto vantaggio di scrivere da un osservatorio a-temporale quale ragionevolmente dovrebbe rivelarsi l’Aldilà, consiste proprio nella divertente possibilità di passare, come se niente fosse, da un periodo all’altro della nostra avventura d’esistere, quella che va dal fatidico giorno della nascita al temuto giorno della fine. Ecco quindi, quando meno ci si aspetta, apparire la “fedele” descrizione della mia nascita.

Mia madre, suo malgrado, aveva preso alla lettera gli anatemi divini scagliati contro Eva e la sua incolpevole discendenza, a causa come tutti ricordano, dell’infamante macchia del peccato originale. Dodici ore di travaglio, continui spasmi, urla e sangue. Dodici ore di pena estrema per riuscire ad espellere, podalico ed asfittico, i miei cinque chili di carne livida.

Del tutto trascurato dal medico, il quale considerandomi ormai spacciato si stava impegnando per tentare almeno di salvare mia madre, devo all’ostinazione di un’anonima ed energica levatrice, quel mio primo grido lacerante che mi consegnò alla vita. Era un grido di terrore. Terrore di un mondo sconosciuto e oscuro che mi stava catturando nelle sue spire. I miei occhi ciechi diverranno azzurri. Gli unici bagliori che intravedono si rifanno a ricordi indecifrabili appartenuti ad un’altra fase del tempo e dello spazio di cui tutto si cancella, salvo incontrarla di nuovo solo quando si spalancheranno le porte della notte eterna.

Non c’è traccia nelle scarse e rudimentali circonvoluzioni del mio immaturo cervello di quell’area d’ombra, di quel nulla denso e liquido dal quale ero appena uscito.

Nel frattempo mio padre, impacciato e superfluo come un vecchio soprammobile, osservava attonito quella scena dolorosa e drammatica, fissava in evidente stato di trans quella sua creatura imbrattata di viscido spurgo e sangue che, pur non avendo neppure mezzora di vita, era già causa di tanta sofferenza. L’ultimo sangue mio padre lo aveva visto sgorgare a fiotti dal fianco squarciato del suo secondo pilota colpito a morte dalla contraerea nemica, sotto i bianchi cieli d’Etiopia. Mio padre ha gli occhi nerissimi, febbricitanti, con ancora impresse nelle retine le immagini degli aerei che precipitavano in fiamme in mezzo al canale della Manica, e i rapidi lampi delle temibili “traccianti” nelle notti senza luna dei bombardamenti su Londra. Nella mente di quel giovane uomo di trentanni, da pochi minuti diventato mio padre, le sembianze fantasmagoriche della vita e della morte si accavallano e si confondono in un’unica materia informe che provocava al suo stomaco, affamato da mesi, un blando urto di nausea.

Erano le cinque del mattino del primo gennaio del 1944. Fuori dalla stanza, riscaldata da un’enorme stufa a legna, ancora impregnata dall’acro odore del lungo travaglio, nel gelo di quella notte invernale, faticosamente cominciava a farsi strada la prima alba dell’ultimo anno di guerra. Un cupo soffocato rombo, fa sussultate le case e i cuori di chi vi abita. I neri bombardieri “alleati” scaricano le bombe residue sulle rovine di un’Italia sconfitta che piange le inutili morti dei suoi figli.

Ma, si sa, i figli sono la cosa più semplice da rimpiazzare.

Be’, ammetterete che il singolare privilegio di passare da un’era all’altra, consente, sia a me, ma pure al lettore, di non fare in tempo a provare noia e stanchezza per concentrarsi a seguire questa saga individuale che parte dalla notte della nascita per giungere all’ora della morte. Infatti immaginiamoci se da adesso in poi cominciassi a raccontarvi delle varie tappe, quelle legate all’infanzia, quelle tribolate dell’adolescenza

-peraltro anch’esse assai importanti nel processo di formazione di questo mio curioso carattere-. Curioso nella misura in cui abbia sempre avuto enorme necessità di provare emozioni forti per trovar pace all’interno del mio spirito. A proposito di emozioni, seguitemi in questa interessante nuova avventura, preparatevi ad immergervi con me nelle acque blu e incontaminate che circondano Lampedusa..

L’acqua è talmente trasparente da consentire la visione ad occhio nudo di un meraviglioso fondale caratterizzato da frastagliate rocce scure estese sino a venti metri sotto il panciuto profilo della barca. Ombre grigie, lente e guardinghe, vanno e vengono in quella zona di mare aperto a sud est di Lampedusa. Sono le grosse cernie che, in quella secca naturale che innalza il proprio fondale sino a pochi metri dalla superficie, per subito sprofondare nell’abisso tenebroso del temperato mare pelagico, hanno trovato il loro habitat più adatto. Una riserva di caccia eccezionale, non solo per gli appassionati di pesca subacquea, ma sopratutto per i grossi predatori della specie di squali martello, barracuda, e pinne bianche.

Altre ambite prede oltre alle cernie e ai grossi saraghi sono meravigliosi pesci argentati di notevole dimensione, eleganti, veloci e incredibilmente curiosi. Sono le cosiddette Ricciole. Ordinate in grossi branchi, nel periodo più caldo dell’anno, attraversano questo tratto di mare guidate solo dall’istinto, nonché dal loro misterioso, precisissimo senso d’orientamento. Per un subacqueo, il momento dell’entrata in acqua è tra i più emozionanti, perché in un attimo, con una ben calibrata capovolta all’indietro, s’infrange quella linea di demarcazione che separa un mondo dall’altro. Il mondo regolato dalle proprie leggi fisiche alle quali siamo perfettamente adattati, e l’altro, quello acquatico, con opposte regole vitali a cui occorre abituarsi in fretta onde evitare spiacevoli sorprese.

Bastano quindi pochi centimetri di immersione per cambiare il modo di respirare, il modo di muoversi, il modo di avvertire suoni, colori e forme. Entusiasmante la bellezza di quell’ambiente reso suggestivo dall’infinita cromatica varietà di vita vegetale e animale che in esso trova le adeguate condizioni per assecondare gli imperscrutabili ritmi di vita e di morte imposti dalla natura. Quel luogo ove ognuno ha un suo spazio e un suo compito definito e ineluttabile – ognuno, tranne naturalmente quella mia impropria presenza – purtroppo, anziché indurmi a provare infinita ammirazione e rispetto per lo spettacolo fantastico che avevo la fortuna di contemplare, preda di un improvviso atavico istinto di cacciatore (peraltro mai riscontrato prima), colto da un incongruente stato di traboccante euforia, faccio scattare il grilletto del fucile già brandito contro questi pesci meravigliosi, la cui innata curiosità, stuzzicata dal luccichio del vetro della maschera, aveva spinto ad avvicinarsi così pericolosamente a quella mia goffa sagoma di improvvisato predatore. La fiocina si conficca nella tenera carne di uno di quei grossi pesci ma non ha né la forza né la precisione di ucciderlo. Il grosso esemplare, quasi stupito, trattenuto dalla lunga sagola del fucile, abbandonato dal branco che prosegue indifferente e veloce il suo percorso marino, prima lentamente, poi sempre più spedito, inizia a girarmi attorno, dando inizio a quella che pare essere la sua ultima macabra danza. Mi ritrovo così costretto ad assecondarlo e a girare su me stesso in un crescente vortice e gorgoglio di bolle, schiuma e panico, sino a raggiungere un nauseante smarrimento di coscienza. Coscienza che riaffiora con subitanea drammaticità quando, come spuntato dal nulla, la rugosa sagoma di uno squalo si inserisce con prepotenza in quella assurda spirale di morte. Due predatori sono troppi per una sola vittima e la lotta per la sopravvivenza non fa complimenti. Riconosco in quegli occhi piccoli, duri, inespressivi, in quel corpo potente e perfetto che l’evoluzione si è ben guardata di sfiorare, tutta la sinistra spietatezza dell’assassino, la stessa spietatezza che regola le leggi della sopravvivenza. Quando c’è da uccidere si uccide, quando c’è da morire si muore. Non c’è pietà, non c’è pentimento. La natura, che forse un Dio sballato ha creato a questo scopo, non fa che seguire ordini superiori, imperturbabile e indifferente, presa com’è dal suo forsennato delirio di perpetuazione. Col sangue gelato dall’orrore, stupefatto e incredulo, osservo il mostro spalancare le fauci, stringere con le terrificanti mandibole la sventurata Ricciola e, con un sol colpo di coda scomparire nel profondo blu dal quale era comparso. Mi sentii inutile e stupido. Capii che non avrei più avuto a che fare con fucili subacquei e squali prepotenti. Capii che solo la fortuna che non merito, mi aveva risparmiato la vita.

Ma a proposito di vita risparmiata, cerchiamo insieme di capire come sia facile e quasi naturale passare dalla vita alla morte e viceversa.

L’aneurisma all’aorta, come tutti gli aneurismi, qualunque sia la parte anatomica interessata, possiede l’originale “pregio” di essere assolutamente a-sintomatica.

In pratica, anche quando mancano pochi istanti alla sua rottura o dissecazione, con conseguenti esiti nella maggior parte dei casi mortali, essa non si degna, neppure con un piccolo irrilevante sintomo, di avvertire che la fine è prossima, per non dire già in atto.

Muoio l’otto giugno dell’anno duemila, pochi minuti dopo le dieci in un caldo mattino di tarda primavera, quando tutto attorno inneggia alla vita. Giugno è il mese che amo di più perché spalanca le porte dell’estate. E’ il mese dei matrimoni, delle prime comunioni, delle giovani donne incinta. E’ il mese del grano tagliato, delle ciliege mature, dei vestiti leggeri delle ragazze che lasciano vedere seni e gambe dorate dalla prima abbronzatura. E’ il mese delle gite in bicicletta, delle feste all’aperto. E’ il mese dei baci rubati alla sera. E’ il mese in cui sotto la luna ci si promette amore, amore per sempre.

Il sole già arrogante sbiadisce il cielo mentre un docile vento secco che profuma di fiori lo mantiene limpido, fragile, quasi fosse di carta. Moltitudini di glicini pendono pesanti e odorosi dai cancelli barocchi delle ville signorili sparse qua e là come perle sulla collina verde che domina la città medioevale, coi suoi tetti rossi e le sue antiche torri. La morte non mi affronta di petto, mi colpisce alle spalle come fanno i ladri o i rozzi assassini. Cado a terra alla stregua di un sacco svuotato all’improvviso. C’è un momento terribile in cui so di non essere ancora morto pur sapendo di non esser più vivo. Capisco con estrema lucidità che da quel momento non sarò più, anche se le mie percezioni sensoriali sono legate alla vita. Le forze defluiscono con la stessa rapidità di un’emorragia inarrestabile. Il cuore impazzito fibrilla in un doloroso spasmo parossistico che esplode dentro il petto, in fondo alla gola, pulsa nelle tempie. Ritmiche ondate molli e nauseanti colpiscono lo stomaco contratto dal quale avverto fuggire via l’anima colma d’angoscia. Poi eccole… eccole le tenebre a formare una dimensione a me già nota dalla quale si allontanano stanchi e perduti gli ultimi sconnessi barlumi di vita. Avvolta nel cupo silenzio della lunga notte dell’anima, la coscienza evapora e si disperde per sempre nello spazio attonito, senza tempo, dove tutto è assente e dove il buio è eterno.

Meno male sarò già lontano per non assistere al lento processo di putrefazione di questo corpo a me tanto caro. Meno male non vedrò i vermi grassi e gialli cibarsi della mia carne. Meno male non sentirò il fetore della decomposizione. Meno male non assisterò al progressivo sgretolarsi delle ossa bianche scarnificate. Meno male non dovrò sostenere lo sguardo vuoto delle orbite buie come antri, lugubri, stupefatte… senza più speranza.

 

Meno male quel giorno di giugno invece non morii. Si potrebbe parlare di miracolo se credessi ai miracoli. Preferisco parlare di coincidenze favorevoli, come la presenza di un mio allievo che non doveva esserci, come i tempi rapidissimi in cui fui raggiunto dall’ambulanza, come la presenza sulla stessa di un ottimo cardiologo, come la presenza in ospedale del primario di cardiochirurgia che poté operarmi immediatamente, come un’impensabile resistenza del mio cuore che resse l’impatto della fibrillazione ventricolare. Sta di fatto che tornai indietro. Tornai indietro dall’aldilà. Un viaggio tanto rapido quanto interessante. Un viaggio che solitamente è di solo andata. Un viaggio di cui posso fornire numerosi particolari, se avrete tempo e voglia di ascoltarmi. Ma è ancora di singolari aneddoti collegati alla mia vita che ora desidero parteciparvi. Non solo per l’indubbio piacere di raccontare la mia storia, ma bensì per dar modo a tutti, compreso me stesso, di conoscermi meglio.

Fu il primo incontro. E fu la prima vittoria. Non chiedetemi cosa ho fatto, né con quale tecnica abbia potuto aver ragione del mio avversario. In quel caso la ragione, la lucidità, la tattica, tutti elementi di solito opportuni e fondamentali per assaporare la vittoria no, in quel momento non erano presenti. In quel momento l’unica cosa che operò alla perfezione fu lui: il cervello rettile. Quella minima parte del nostro principale organo dal cui funzionamento complesso riusciamo a distinguere il comportamento umano da quello animale, fu l’unico responsabile del mio imprevedibile successo. Il bruto istinto mi salvò dall’ignominia della sconfitta per farmi assurgere agli allori della gloria. Be’… è evidente che sto un po’ esagerando, d’altra parte quella prima vittoria, ottenuta durante le finali di un campionato minore, trasportò il mio inesperto immaginario in una zona recettoriale molto simile alla dipendenza dal fumo, al vizio del gioco, e funesta assuefazione alla droga. A quella prima esperienza seguirono centinaia di combattimenti, alcuni durissimi, alcuni pericolosi. Conobbi più volte la sconfitta, assaggiai più volte la terribile amarezza per aver bruciato anni di minuzioso allenamento in soli trenta secondi di furioso scontro. Ma l’atmosfera che precede la gara è sempre la stessa. Una sorta di miscela esplosiva si sostituisce al sangue, mentre le mani sudano e il cuore procede a sbalzi. Non riesco a capire se provo più paura o coraggio. Non riesco a discernere fra tecnica e follia. Ma l‘avversario è già lì che aspetta. Malgrado la sua apparente imperturbabilità so (o spero) che egli prova le mie stesse emozioni. Spesso, anzi sempre, si tratta di affrontare una gara di nervi, chi cede per primo ha di fatto perduto. Il benessere psichico che dona la vittoria, per cercare di farvela assaporare il più possibile, mi costringe a paragonarlo al travolgente piacere conosciuto in amore. Un piacere che le parole non sanno esprimere, un godimento globale a cui, provato una volta, non si vuol più rinunciare. C’è qualcosa di erotico, qualcosa di sensuale nel trionfo della vittoria. Come già detto, si tratta di una specie di assuefazione ad una potente droga che solo il tempo, la maturità, la saggezza, riusciranno a domare.

Sto cercando in tutti i modi di allontanare il momento, ma lo so, so perfettamente cosa state aspettando. Non vedete l’ora che io vi parli di cosa c’è dall’altra parte. Cosa c’è oltre la cortina dell’essere o non essere… a proposito! Vi prego, lasciatemi declamare questo breve passo dell’Amleto. Mi sarebbe tanto piaciuto possedere quelle belle voci d’attore… quelle belle voci che quando le ascolti non senti più ciò che dicono, ma segui solo la musica di quel timbro sicuro, la sua sonorità profonda e quella commozione che viene dal cuore sì… lasciatemi declamare Essere o non essere – questa è la domanda. Se è più nobile per la mente sopportare le sassate o le frecce dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di guai e combattendo finirli. Morire, dormire – nient’altro – e con un sonno dire che poniamo fine al male del cuore e ai mille travagli naturali di cui carne è erede. Immaginiamo insieme l’applauso… morire, dormire… non c’è differenza poiché i sogni non salgono alla mente, e la mente ha superato la loro menzogna. Di là non si mente. Quello che vedi è vero, ed è vero ciò che vi rivelerò, e il fatto che mi crediate o meno non riveste alcuna importanza. Niente e nessuno potrà scalfire la granitica superficie dei miei ricordi.

 

Ah come risulta arduo esprimere a parole il mio incontro col nulla. Il mio primo approccio, col nulla, col buio, col silenzio, col freddo della notte eterna. Non avevo mai visto un buio così nero, un silenzio così silenzioso, è il freddo era solo apparente, un freddo metaforico, un freddo che nessuna coperta può attenuare. Come si fa a raccontare con parole umane ciò che non è umano? Sono appena giunto da un mondo fatto di luci, di colori, di suoni, di odori. Sono appena uscito da una dimensione finita con contorni precisi, fisici e temporali. Esco da una condizione emotiva composta da sensazioni, sentimenti, gioie e dolori, passioni folli, amori travolgenti, odio fame disperazione, commozione rimpianti pentimenti. Vengo da un mondo di calore, cieli azzurri, immense abbaglianti distese di ghiaccio e oceani profondi abitati da squali famelici e immense balene e microrganismi variopinti. Vengo da un mondo brulicante di foreste e aridi deserti e leoni e serpenti velenosi e milioni di specie di insetti. Vengo da un mondo irto di montagne innevate, e nuvole imponenti cariche di pioggia che navigano in pieno cielo come bastimenti alla deriva sospinti da venti impetuosi. Giungo da una vita fatta di luci e ombre. Una vita che spaventa, entusiasma, delude, annienta distrugge crea rigenera senza posa. Provengo dal mondo degli uomini, dominatori della Terra, dominatori della natura, degli animali.

Uomini che da sempre si combattono, si uccidono per allargare i confini, per imporre leggi e religioni, per monopolizzare il petrolio, per il diverso colore della pelle. Uomini che sterminano animali, disboscano foreste, avvelenano le acque. Uomini che erigono città, grattacieli enormi, bonificano paludi, coltivano la terra, conquistano lo spazio, edificano cattedrali per onorare Dio. A proposito di Dio, il primo che mi aspettavo di incontrare oltre quella cortina oscura era proprio lui, il signore del cielo e della Terra, l’onnipotente, il misericordioso. Colui di cui tutti siamo figli, ed io mi ero già in parte preparato una specie di discorso adatto a giustificare almeno in parte il mio comportamento terreno. Invece niente, niente di niente, solo il nulla, il silenzio opprimente, la notte sconfinata, la solitudine più desolante, l’orrore dell’oblio, l’ opprimente senso di eterno riposo, l’atroce assenza di tutto. Si è vero, tutto è assente, però la coscienza, la consapevolezza, la percezione profonda di me stesso, sì, per fortuna questa è rimasta, per fortuna posso ancora rifarmi a me stesso, partire da me stesso. Allora capisco che tale coscienza di sé altro non è che la famosa anima, la mia anima. Così provo la certezza che essa mai, mai potrà morire. L’ anima ha solo  momentaneamente perso il suo misero, mortale, acciaccato contenitore di carne. D’ora innanzi proverò esclusivamente moti dell’anima, sussulti dello spirito, sobbalzi di coscienza. Non c’è fine, non c’è principio, non ci sono più dolci albe né languidi tramonti. La vita è un bagliore nella lunga notte dell’anima. L’anima che non può morire, se ne sta lì, astratta e confusa nell’eternità, come una goccia d’acqua dentro l’oceano. Pian piano, ma con sempre maggior certezza, mi rendo conto di non esser solo. Piano piano, il mio diverso modo di percepire scopre la prossimità di presenze sconosciute, misteriose, filiformi, simili ai tentacoli trasparenti di grandi meduse. Ma sì, sono le altre anime che un po’ alla volta riconoscono la mia. Così le più pronte si affrettano, si avvicinano, raccontano la loro storia. Altre si spostano senza alcun rumore, inerti, inconsapevoli, leggere, turbinanti nel buio come larve informi portate da un soffio lontano.

Ma proprio sul più bello da quel buio impossibile emerge una piccola luce puntiforme, in rapido avvicinamento e sviluppo circolare. Riconosco il letto ove sono adagiato, riconosco le maschere sul viso dei medici. Strani tubi trasparenti fuoriescono dalle costole dove stanno infilati quasi fossero gambi di fiori senza petali. Tento di parlare ma non esce alcun suono. La gola è secchissima, la sete insopportabile. Se quello che ho visto era l’occasione per incontrare Dio, ora so che l’ho clamorosamente mancata. E ora seguitemi nel prossimo ragionamento prima che gli effetti secondari dell’anestesia si impadroniscano totalmente della mia lucidità.

Ogni uomo è un potenziale contenitore di più vite. Il fatto che solo una di esse possa realizzarsi non significa che le altre siano meno importanti, o meno adatte alla nostra tipicità costituzionale. La vita reale, da ognuno condotta, non esclude l’esistenza di innumerevoli altre possibilità di cui solamente il caso ha impedito la realizzazione.

 

Ferdinando Balzarro nasce a Piacenza ma vive a Bologna. Laureato in scienze motorie, pluricampione e famoso maestro di Karate, nel 2000 stabilisce in Thailandia il record del mondo di paracadutismo acrobatico. Sempre nel 2000 inizia a coltivare la sua passione di scrittore pubblicando, con diverse case editrici, nel giro di quindici anni altrettanti romanzi e saggi di forte impatto emotivo. Ha terminato l’ultimo romanzo “Il sesto giorno l’uomo creò Dio”, previsto in uscita la prossima estate.
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