Carla Tommasone

Fiction – Paura in bianco e nero

Devo premettere che non sono mai stata un’amante del buio totale, o una sostenitrice della solitudine quale deterrente per rendersi autosufficienti e sicuri di sé.

Io ero quella che fino a tredici anni aveva dormito nel lettone con la mamma e sempre con la luce notturna inserita nella presa di corrente. Gli ambienti estranei m’inducevano ansia, non mi avventuravo mai in luoghi sconosciuti senza l’opportuna scorta, i rumori inaspettati dietro le mie spalle mi spingevano a sobbalzare col cuore in gola, e anche se ero in compagnia ma assistevo alla proiezione di un thriller, mi coprivo gli occhi rifugiandomi sotto la gonna di mia madre e tutto questo si rendeva concreto anche in tempi piuttosto recenti.

Insomma, per dirla tutta, non ero per nulla coraggiosa e mi lasciavo sopraffare facilmente dalla paura.

A giudizio della psicologa dalla quale la mamma mi aveva condotta, risentivo della mancanza della figura paterna, essendo mio padre andato a vivere con l’altra sua famiglia quando avevo tre anni ed era stato così lontano e inesistente da non trasmettermi alcuna sicurezza, né ci aveva provato mia madre che era un tipo piuttosto ansioso.

Dal canto mio, ritengo di essere rimasta traumatizzata quando a cinque anni il figlioletto sadico della cugina di mia madre, maggiore di me di tre anni, mi chiuse nel sottoscala della loro casa di campagna.

Mi aveva condotto fin lì con l’ingannevole attrattiva di una bambola, bellissima a suo dire, vestita con abiti da principessa, appartenuta alla nostra comune bisnonna.

La bambola non c’era, tuttavia il muro era puntellato di macchie d’umido, sbaffi di sporco e strisciate di vernice, e tali chiazze mi avevano immobilizzato sul posto, perché io vi avevo scorto l’immagine di un lupo, con gli occhi iniettati di sangue, le fauci spalancate, i denti gocciolanti di viscida bava, pronto a spiccare il balzo verso di me se solo si fosse avveduto della mia presenza, perciò ero rimasta praticamente ferma per quasi un’ora, il tempo che mia madre aveva impiegato per venire a tirarmi fuori di lì, gli occhi puntati alla parete dove avevo veduto il lupo prima che la porta si richiudesse alle mie spalle lasciandomi nel buio più completo, evitando persino di respirare rumorosamente perché il lupo non si accorgesse dell’estranea presenza, trattenendo tenacemente l’urina di cui era colma la vescica, serrando le labbra perché non fuoriuscisse alcun grido di terrore che avrebbe scatenato il lupo, e pregando fervidamente che non percepisse i colpi possenti del mio cuore che mi batteva nella gola.

Quando mia madre mi trovo e mi liberò, svenni.

Insomma, questa è la premessa.

Allorché il compagno storico di mia madre decise che era tempo d’installarsi in casa nostra definitivamente e giacché avevo ormai raggiunto la soglia dei trenta anni, decisi di spiccare il volo.

Avevo traslocato solo da una settimana e non mi ero ancora abituata alla mia nuova casa, quando fui sopraffatta di nuovo dalla mia ingestibile paura.

Nel momento in cui avevo lasciato l’ufficio, il cielo era greve, grigio, spesso e tumultuoso. All’interno di quelle nuvole minacciose ferveva l’attività e, l’energia compressa squarciava il buio delle nuvole con accecanti lampi rossastri e, inutile precisarlo, il temporale era uno dei fenomeni che mi terrorizzavano.

Uscita dalla metropolitana, scrosciava ormai senza tregua e dalla fermata della metro fino a casa c’era da percorrere un tratto di strada completamente scoperto, con l’attraversamento di un parchetto. Mi lanciai a capofitto reggendo stoicamente il mio misero ombrellino che offriva ben scarso riparo, giacché pioveva anche storto! Tuttavia volevo solo essere a casa al più presto.

Dopo pochi passi nell’inferno, una folata di vento piegò nel senso inverso la cupola dell’ombrello e l’acqua m’investì in pieno.

Rabbrividendo, avanzai soffocando un grido, perché un altro lampo aveva illuminato a giorno il cielo e il tuono mi era rimbombato nelle orecchie assordandomi.

Se qualcuno mi avesse chiesto che idea avessi dell’inferno, avrei risposto che be’ … quello, era l’inferno.

L’acqua scrosciava, il vento ululava, i tuoni si annunciavano come lo scoppio di un arsenale ed io ero zuppa e tremavo di freddo e di tensione, ogni angolo buio che raggiungevo sembrava celare un qualche pericolo pronto a sopraffarmi e quando un lampo illuminava la strada che percorrevo, ero certa di scorgere qualche donna sgozzata immersa nella pozza del proprio sangue, o un randagio pronto a balzarmi indosso per azzannarmi alla giugulare, o ancora uno stupratore in attesa di scagliarmi contro il muro e violentarmi.

I passi affrettati dietro le mie spalle mi indussero il cuore a battere forsennato nel petto e stavo per urlare quando l’uomo che mi seguiva mi superò correndo.

Mi affrettai anch’io desiderando ardentemente la sicurezza della mia casa e una doccia calda.

Continuavo a volgermi e a guardarmi alle spalle ma non c’era nessuno che attraversava stoicamente l’inferno come me.

Ogni lampo mi abbagliava, ogni tuono m’induceva in un sussulto terrorizzato e nel desiderio di rannicchiarmi su me stessa e non muovermi più. Quando finalmente arrivai a casa ero inzuppata da capo a piedi e grondavo acqua.

Avevo notato quanto buio ci fosse attorno a me, tuttavia lo avevo attribuito al temporale e solo quando pigiai l’interruttore mi resi conto che il buio che mi avvolgeva era dovuto a una momentanea mancanza di elettricità e che tutto il quartiere ne era coinvolto.

Avanzai in casa incerta. Ancora stazionavano sul pavimento scatoloni di oggetti cui non avevo assegnato una collocazione e il buio era quasi totale. Non volevo rompermi l’osso del collo inciampando in qualche scatola.

Chiusi la porta di casa a chiave e mi appoggiai contro di quella cercando di ritrovarmi. Ero a casa, al sicuro, e presto la luce avrebbe illuminato quel luogo ancora estraneo per me ma che era mio. Era il mio nido, la tana ove sentirmi sicura e invulnerabile.

Sulla soglia mi liberai degli abiti grondanti e, completamente nuda e infreddolita fino al midollo, avanzai cautamente nel salone della casa. Conservavo una candela da qualche parte?

Un sibilo lieve e un tonfo mi immobilizzarono scatenando il finimondo in me.

«Chi … chi c’è?» balbettai col cuore in gola, l’immagine di un coltello con la lama lucente che calava su di me a costringermi in un urlo di puro terrore.

Ma nessuna lama mi colpì, l’immagine prodotta dalla mia mente si dileguò e il buio mi avvolse con la carezza gelida di un impercettibile spostamento d’aria accanto a me.

Ero assolutamente immobile come in quel sottoscala quando avevo cinque anni, costringendomi persino a non respirare per non emettere alcuna vibrazione, la mente così colma di terrore da non riuscire a connettere.

Anche la completa nudità mi induceva in uno stato maggiore di vulnerabilità.

Almeno avessi tenuto la biancheria indosso, mi ripetevo benché fossi al buio e non sarebbe cambiato nulla se avessi indossato slip e reggiseno, se non, magari, offrirmi una parvenza di sicurezza.

E poi la mia mente si aprì in uno spiraglio e intravidi la salvezza. Non ero chiusa a chiave come nel sottoscala, o meglio, la chiave per la fuga era in mio possesso.

Trassi un respiro doloroso che fu quasi in singulto di gioia, ma immediatamente lo smorzai per non emettere suoni. Come al rallentatore cominciai a sollevare un piede per arretrare.

Ma se c’era qualcuno in casa, perché non parlava, non mi minacciava, non si avventava su di me, non coglievo il suo respiro affannoso? «Chi c’è?» ripetei in un bisbiglio raschiante perché la gola era stretta e arida.

Un lampo accecante per un attimo illuminò la stanza e scorsi la tenda gonfiarsi e assumere un aspetto sinistro, lunghi artigli a deformare la stoffa velata, mentre qualcosa mi sfiorava le gambe per artigliarle.

Urlai, mi volsi e corsi all’uscio sconvolta dal terrore, dimentica della mia nudità, incapace di formulare un pensiero coerente che fornisse una spiegazione a quel fenomeno sconvolgente che aveva del soprannaturale.

Nell’ansia di aprire l’uscio e fuggire, annaspai in cerca delle chiavi che avevo riposto sulla consolle dopo aver chiuso la porta con le mandate e un tonfo possente contro l’uscio m’indusse in un altro grido e a sussultare, perdendo così la presa sulle chiavi che piombarono al suolo.

«Ma chi è che grida? Che diavolo succede?» urlò qualcuno da fuori picchiando con violenza sulla porta.

Annaspavo prona in terra, in preda al terrore, percependo l’aria spostarsi attorno a me, prima dietro e a destra, poi davanti e a sinistra, e singhiozzavo non sapendo come difendermi o da che cosa. Qualcosa mi sfiorò la gamba e strillai di nuovo e i colpi contro la porta divennero più ravvicinati e potenti. Forse sarebbe venuta giù dai cardini.

«Aprite! Che succede?»

Agguantai le chiavi, mi sollevai e annaspai per infilarle nella serratura assordata dai colpi sulla porta, terrorizzata da quella essenza sconosciuta che gravitava silenziosa attorno a me spostando l’aria ed emanando calore.

Quando finalmente riuscii a girare la chiave nella serratura, l’uscio si spalancò di colpo ed io mi catapultai sul petto dell’uomo che agitava una torcia.

«Jessica, santo cielo, che succede?» sbottò Francesco Aprea, il mio vicino.

«C’è qualcuno in casa … non lo vedo …» ansimai aggrappandomi a lui.

«Gesù … sei nuda! Ti ha violentato?!» chiese roco stringendomi al suo petto in un vano tentativo di ricoprirmi.

«Miao!»

Era stato quasi impercettibile, eppure il miagolio aveva raggiunto le mie orecchie nitidamente.

Mi irrigidii.

«Miao!»

«Jessy, parlami, che diavolo ti ha fatto?» ansimò Francesco sconvolto dalla mia nudità. Di colpo mi allontanò da sé e avanzò in casa urlando come un forsennato. «Vieni fuori schifoso bastardo che ti faccio a pezzi con le mie mani!» Fu allora che ritornò la corrente elettrica e nella luce accecante i miei occhi furono attratti dal rapido movimento sull’uscio.

Per evitare di essere travolto da Francesco, un gattino bianco schizzò lateralmente, mentre un altro tutto nero si fece avanti cautamente per venire a strofinarsi sulla mia gamba miagolando debolmente.

Gioia e sollievo m’invasero la mente, lacrime di sconcerto mi inondarono gli occhi. Da dove arrivavano quei gatti?

Francesco ricomparve sull’uscio.

«Ma non c’è nessuno in casa … piangi? Oh mio Dio, che ti hanno fatto? Chi?» balbettò affranto.

«Niente … oh, proprio niente …» risposi singhiozzando e provando a coprirmi i seni con le mani mentre lui si sfilava la camicia. Me la porse evitando di guardarmi. «E allora? Perché sei nuda?»Il mio cellulare cominciò a squillare e corsi in casa, infilando la camicia del mio vicino, conosciuto solo da qualche giorno.

«Vieni avanti Fra», lo invitai raccattando i miei abiti bagnati dal pavimento ed estraendo il cellulare dalla tasca dei jeans. Aprii la linea scorgendo la foto della mamma sul display.

«Ciao Jes, allora hai visto la sorpresa?» esordì lei allegra, ignara della tempesta che avevo appena attraversato e nella quale ero stata sul punto di soccombere.

«Sì … ma … quando …?»

«Li ha portati oggi Flavio per te, hanno solo un paio di mesi, si chiamano Nuvola Bianca e Tigre Nera e ti saranno di compagnia ora che sei tutta sola in quella casa e poi giacché hai sempre desiderato un gatto …» spiegò.

«Sì mamma, grazie», risposi con un filo di voce, osservando Francesco afferrare i due gattini per la collottola per riporli dentro casa e richiudere l’uscio.

«Ora ho visite … ti richiamo io», tagliai corto asciugandomi il viso e stringendomi la camicia di Francesco indosso.

Però, e chi supponeva che Francesco Aprea avesse quel torace da palestrato con tanto di tartaruga a contrargli l’addome?

E cacchio, anche quegli occhioni azzurri che mi scrutavano interrogativi e ancora ansiosi non erano per nulla comuni, con quelle ciglia così folte e lunghe da fare invidia a ogni donna.

«Ignoravo di possedere due gatti e al buio non li ho visti e sono morta di paura», riassunsi brevemente.

Il volto del mio amico si rischiarò all’istante e il suo viso acquisì una luce magica e affascinante. Un sorriso cominciò a increspargli le belle labbra.

«Per i gatti?!» chiese incredulo.

Accennai di sì con il capo sentendomi una stupida.

«E perché eri nuda?»

«Ero inzuppata da capo a piedi. Volevo solo entrare in doccia.»

«Già», convenne Francesco osservandomi i capelli che percepivo incollati al capo e che ancora gocciolavano.

Io invece non riuscivo a non fissargli il torace nudo.

Superata la paura, altre immagini erano subentrate nella mia fervida mente. Inutile specificare quali fossero.

«Beh …» mormorò Francesco un po’ a disagio.

«Grazie», esclamai avanzando fino a lui per deporgli un bacio casto sulla guancia e incredibilmente, lui arrossì.

«Per cosa?»

«Per essere accorso in mio soccorso. Ora finalmente mi sentirò al sicuro in questa casa.»

«Ah … beh … okay … se hai bisogno …» replicò a disagio arretrando. «Tienila … sta molto meglio indosso a te», continuò indicando la sua camicia.

Sorrisi e s’immobilizzò.

«Cacchio se sei bella!» ansimò ma poi il gatto bianco che doveva credersi un gatto volante, spiccò un balzo per artigliarsi alla sua coscia e Francesco mugolò per il dolore.

«Due dita più su e potevo dire addio alla mia virilità», ansimò contrito estraendo gli artigli del gatto dai suoi calzoni, ed io risi, finalmente serena e rilassata.

«Ma che ridi?» chiese il mio amico tuttavia già sorrideva anche lui e i suoi occhi sfavillavano di una luce intensa e maliziosa.

Sì, mi si prospettava una divertente convivenza con quei due demoni e una splendida, lieta “amicizia” con il mio adorabile e aitante vicino.

 

 

 

 

Print Friendly, PDF & Email
Invia una mail per segnalare questo articolo ad un amico