Prefazione di Ferdinando Balzarro
Sebbene da numerosi decenni la presenza delle donne in qualsivoglia attività umana, sia indiscusso dato di fatto, nonché acclarata la di loro capacità di raggiungere altissimi livelli nelle più disparate discipline artistiche e sportive, per quanto concerne le Arti Marziali, una vera e propria diretta testimonianza di tale straordinaria esperienza non era mai stata considerata, né tanto meno descritta e infine puntualmente raccolta in un libro …perlomeno in Italia. Con questo “roseo” testo, l’autrice si pone l’obiettivo di colmare almeno in parte tale lacuna intervistando otto delle più significative esponenti e maestre di Arti Marziali (di esclusiva matrice giapponese): Karate, Judo, Kyudo, Aikido, Kendo.
Dalla loro stessa voce scaturiranno i principali motivi di una scelta di vita, le difficoltà incontrate, le emozioni, i dubbi e le contraddizioni, i sacrifici, le fulgide soddisfazioni, il puro amore per l’Arte, la monolitica passione. Pur essendo tutte campionesse dal glorioso passato agonistico, la componente volutamente posta in risalto, riguarda appunto quell’arduo percorso, la “Via”…il “DO”, che ognuna di esse ha compiuto e ancora umilmente prosegue, sempre alla ostinata ricerca di sé e per lasciare le proprie tracce alle nuove generazioni. Non mancherà il contributo di cinque importanti maestri di karate, Judo e Aikido che esprimeranno il loro punto di vista sul magico quasi melodico richiamo della “Via in Rosa”.
Di seguito due capitoli tratti dal libro
CHI È LA MARZIALISTA
Delineare la personalità della praticante di Arti Marziali non è cosa semplice. Bisogna soffermarsi sulle sue caratteristiche, sui cambiamenti che possano esservi nel corso del tempo con il costante esercizio, per poi comprendere quali siano i vantaggi che ella possa trarne nel lungo periodo.
Seguire le Arti Marziali può essere utile in “psicoterapia” poiché propedeutiche allo sviluppo della personalità, all’educazione dell’individuo e in ambito sociale, nei casi di riabilitazione dalle delinquenze giovanili.
Alcuni studiosi ritengono che, le arti marziali da combattimento come ad esempio il Karate, ma non solo, dal punto di vista emozionale siano assimilate con più difficoltà dalle donne piuttosto che dagli uomini in quanto esse hanno una percezione riguardo la loro vulnerabilità ed un controllo di sé differente rispetto a questi ultimi.
Ricerche sull’aggressività mostrano come il combattente di arti marziali – e la donna non fa eccezione – può diventare veramente reattivo solo in gara e la combattività in quel contesto è vissuta come regola del gioco. Nella vita quotidiana, al contrario, chi pratica è meno aggressivo in quanto consapevole dei gravi danni che potrebbe arrecare.
Le donne marzialiste sono meno ansiose e depresse rispetto a quelle che non praticano alcuna attività fisica e il loro umore migliora man mano che passando gli anni, arrivano alla maturità dei gradi superiori poiché generalmente il grado, è il risultato di una certa esperienza e lunga pratica.
Acquisiscono una buona padronanza corporea e sperimentano tutto quello che possono anche se caratterialmente rimangono sempre un po’ più riservate rispetto agli uomini.
Ovviamente le donne hanno un modo differente di rapportarsi con l’ambiente circostante sia in allenamento che in gara e per quanto possano sembrare più preoccupate all’inizio della competizione, lo dico anche per esperienza personale, man mano sono capaci di gestire meglio le emozioni e di avere più fiducia e certezza nei movimenti.
Il Dojo è il luogo per eccellenza nel quale si svolge l’allenamento insieme ai propri compagni ed assume una rilevanza quasi sacra. Il rispetto comincia dal luogo prescelto per la pratica. Il Dojo deve essere confortevole, silenzioso, avere la giusta temperatura e deve consentire ai presenti quel giusto grado di tranquillità necessaria a favorire la concentrazione lasciando fuori qualunque pensiero non pertinente alla propria Arte. All’interno del dojo per nessun motivo devono verificarsi comportamenti sessisti o discriminatori e qualora si verificassero, devono essere disincentivati e mai sottovalutati. Se si dovessero palesare vanno stigmatizzati poiché da considerare un’altra forma di violenza. Quest’ultima infatti non è solo fisica, non consiste nel tirare pugni o calci specialmente all’interno del dojo ma nell’imporre a qualcuno qualcosa che non desidera.
Se due persone decidono di comune accordo di fronteggiarsi in un combattimento coscientemente, rispettando le regole, in un ambiente sicuro e sotto la supervisione di un maestro o di un arbitro, questa non è violenza. Sottolineo: la violenza consiste nell’imposizione, nella marcata volontà di costrizione e questa va saputa riconoscere subito e combattuta alla radice in modo intelligente, a partire dal Maestro. In un ambiente come il Dojo il Maestro, è il punto di riferimento essenziale, il fulcro, la cui autorità è indiscussa, il quale deve svolgere questa funzione con la massima integrità morale.
Allenarsi insieme donne e uomini aiuta a conoscere meglio il sesso opposto e a rispettarlo; l’importante è comunicare. Ciò renderà più sicuri e meno timorosi di utilizzare parti del corpo che normalmente creano imbarazzo.
La marzialità consiste anche in questo: sapere che ci si trova di fronte solo “Persone” senza distinzione di sesso.
La giusta continuità che si crea è data dall’unione di elementi
come la consapevolezza, la chiarezza, la comunicazione, il confort. Essenziali
per una sana pratica liberamente condivisa.
LE ARTI MARZIALI EDUCANO ALL’ESSENZIALE
Se c’è una cosa che mi hanno insegnato le Arti Marziali e nel mio caso il karate – la Via che pratico – è la ricerca dell’essenziale.
Dagli oggetti in surplus, presenti nella nostra vita e nelle nostre case.
Dall’eccesso dei rapporti umani privi di consistenza.
L’accumulo, infonde sicurezza come uno scudo di fronte a tutte le incertezze e le paure che ci sommergono, investono, sovrastano.
Se riusciremo a capire cosa sia davvero importante per la nostra vita, saremo in grado di percepire come abbiamo veramente bisogno di poco per vivere in armonia con noi stessi e con l’ambiente che ci circonda.
Dalla nostra casa, al guardaroba, al cibo, ai rapporti, se selezionassimo con umana freddezza e consapevolezza, saremmo molto più sereni e appagati.
Da donna, piano piano, ho notato come da quando il Karate è entrato nella mia vita, soprattutto grazie al combattimento, non c’è spazio per il superfluo. Nel combattimento bisogna essere decisi, diretti ed immediati. Il superfluo è pericoloso.
Provo un senso di benessere ogni qualvolta riesco ad eliminare senza rimorsi oggetti inutili e mi sento liberata dal consumismo, dall’eccesso di conservazione che intasa la vita pratica e l’anima.
Si, anche l’anima, poiché sovente rivestiamo le cose di un’interiorità, di un valore profondo, di un significato intrinseco quasi universale e non abbiamo il coraggio di guardare l’oggetto per quello che è, piuttosto che per quello che rappresenta per noi.
Persino gli svariati rapporti umani, le relazioni sociali vuote ci condizionano talmente da non riuscire ad essere pienamente noi stessi.
Al contrario, è giusto favorire rapporti veri, profondi, basati sulla pulizia del sentimento, la sincerità degli intenti, la stima e la solidarietà.
L’essenziale lo dovremmo ricercare anche nel nostro linguaggio. Diventare immediati, lineari, esprimerci senza giochi di parole o sotterfugi rende tutto più semplice, senza equivoci o ipocrisie.
Ricerchiamo la sostanza delle cose, la pienezza, direttamente, senza bisogno di artifizi.
Prendiamo il filo della nostra vita e teniamolo stretto in mano senza paura di perderci qualcosa. Quel filo, è il solido legame con noi stessi, la spina dorsale della nostra interiorità, il coraggio di mantenere solo le cose realmente importanti. Tutto questo mi ha insegnato il karate.
LE DONNE NINJA
La figura della donna nelle culture antiche, si può ritrovare in varie circostanze tanto da divenire addirittura predominante nella storia e nella conduzione degli affari del Clan.
Nei paesi orientali come il Giappone, il ruolo della Donna assume importanza al punto che, la sua prima espressione si trova nella mitologia di quella terra che tradizionalmente assegna la supremazia ad Amaterasu, Dea del Sole su tutte le altre Divinità nipponiche e pone Izanagi, divinità femminile, sullo stesso piano della divinità maschile Izanami, per il combattimento.
V’è traccia di imprese di Regine Guerriere che comandano eserciti contro le rocche nemiche al di là dello stretto, in Corea.
Donne Ninja dette Kunoichi, sono vere e proprie spie che utilizzano tecniche ninja in svariati modi.
Con stratagemmi, una certa arguzia e scioltezza dialettica, riescono nelle loro imprese, accompagnate anche dalle loro innegabili abilità marziali.
La Kunoichi, è destinataria e custode di segreti, messaggera e grande osservatrice.
A dispetto di ciò che si pensi, le Kunoichi non si preparano con i Ninja.
Il loro principale addestramento consiste nel travestimento, la combinazione e l’uso dei veleni, l’utilizzo delle “armi psicologiche”, come la femminilità, la manipolazione, la dissimulazione, lo charme, l’intuizione.
La loro abilità raggiunge l’acme nel riuscire a controllare le emozioni e gli stati d’animo poiché risulta impensabile che possano avere il benché minimo punto debole, cedimento. Sono attente a non lasciare trasparire una certa vulnerabilità, non dovendo per alcun motivo essere preda di facili sentimenti, rischiando d’innamorarsi di un eventuale e prossimo bersaglio.
Singolare è il tipo di addestramento cui sono sottoposte, basato essenzialmente sulla dimestichezza che devono possedere ed affinare per un controllo mentale sul nemico.
Le Kunoichi, sono specializzate nel combattimento ravvicinato piuttosto che nell’uso delle armi a distanza e utilizzano il corpo a corpo solo nel caso vengano scoperte.
Puntano sugli uomini più potenti delle gerarchie nemiche, allo scopo di fiaccare eventuali reazioni di difesa.
Nell’utilizzo delle armi, sono in grado di occultare lame, all’interno di diversi oggetti come strumenti musicali o giocattoli sessuali.
Nel Giappone antico, le Kunoichi sono esperte assassine. La loro presenza è ovunque: nei Templi – come serve e concubine – si muovono liberamente all’interno dei palazzi dei signori feudali.
Con disinvoltura riescono a mimetizzarsi, passano inosservate compiendo atti di spionaggio, con poche o addirittura senza interferenze.
Il Kunoichi-Jutsu, si basa principalmente sull’arte dell’inganno, le tattiche a sorpresa e le armi nascoste.
Le donne guerriere, avvalendosi delle proprie conoscenze e resistenze fisiche sono attente a non sprecare mai energie nei loro combattimenti.
La loro elevata capacità sta nell’usare principalmente, strategie mirate a colpire i punti vitali del corpo umano, al solo scopo di ottimizzare i loro attacchi, sfruttando appieno il connubio tra forza e velocità, raggiungendo in tal modo, rapidamente l’obiettivo.
Tra le armi in uso delle Kunoichi, i Neko-te (unghie di gatto) sono fra le preferite.
L’arma, consisteva in Unghie in acciaio che, fissate alle dita come se fossero un anello, ricordavano le unghie del felino (diverse dagli Shuko e Ashiko).
Talvolta, vengono intinte nel veleno e gli occhi divengono un bersaglio immancabile e appetibile…
La Kunoichi, benché dia un’immagine di sé come essere indifeso o bisognoso d’aiuto, in realtà non è mai una vittima anzi, diventa artefice e protagonista dell’attacco che progetta di compiere con estrema freddezza e lucidità.
Con molteplici trucchi e stratagemmi recita “una parte” al solo scopo di colpire repentinamente come vuole e senza titubanza alcuna.
(Tratto dall’Articolo: Kunoichi, le donne e le arti marziali. Dr. Masaaki Hatsumi).
MADRI E ARTI MARZIALI
Sino all’ultimo sono stata percorsa da sentimenti contrastanti. Parlare di maternità e arti marziali, mi pareva potesse chiamare in causa una sorta di problematica connaturata al genere femminile; la qualcosa, oggi come oggi, ritengo superata al punto da giudicare fuori luogo, se non persino offensivo, dedicar tempo ad ulteriori riflessioni sull’argomento. Infine, però ho deciso, trattandosi di questione talmente affine allo spirito e al corpo femminile, fosse opportuno farne cenno. Scriverne appunto non come si trattasse di valutare un handicap, bensì quale straordinaria occasione per dimostrare, a se stessa e al diffidente “mondo”, quanto possano rivelarsi assurde e pregiudizievoli talune perplessità sulla formidabile capacità di una donna di esserlo a tutto tondo: appassionata praticante, maestra, e attenta madre. Certo, non ci sarà bisogno di sottolineare che, durante quel particolare stato, specie nel periodo finale, sarà necessario adottare logiche precauzioni ed osservare atteggiamenti scevri da qualsivoglia rischio per sé e per il bambino. Addirittura, durante normali corsi di allenamento nel Dojo, possiamo scorgere giovani donne con in braccio il loro piccolo, muoversi in armonia col gesto marziale, in quel frangente quasi cullante, meraviglioso esempio di amore e di vita.
“… Allora, tutto sta
dentro di me. Stelle
dure, mari profondi,
idee d’altri, terre
vergini, sono la mia anima.
E a tutto comando io,
mentre senza comprendermi,
tutto pensa a me”
(Juan Ramón Jiménez)
UNA KARATEKA PICCOLA PICCOLA
Come tutti i bambini della mia generazione, nati tra il 1960 e il 1965, sono stata una grande ammiratrice di Bruce Lee e di tutti i suoi film.
A quel tempo, poter andare al cinema con mio fratello, più grande di me era una festa.
Dal canto mio, non solo ero la sua “sorellina” rompiscatole con la quale litigava sempre ma, dopo avere perso il padre entrambi precocemente, (Puccy aveva quindici anni, io ne avevo appena undici) mio fratello si trovò a fare i conti con una pesante eredità: fare l’uomo di casa.
Ricordo che vivemmo un periodo molto doloroso e difficile, soprattutto dovendoci relazionare con i nostri rispettivi coetanei che non avendo vissuto una perdita così grande non potevano capirci.
Per allontanare la tristezza mio fratello, aveva preso l’abitudine di portarmi al cinema per farmi vedere i film di Bruce Lee.
Nel buio della sala ci trovavamo a fantasticare sui combattimenti con svariati avversari e noi due eravamo in grado di tenerli a bada, con la nostra velocità e la nostra perizia nel difenderci senza nemmeno fare scorrere una goccia di sangue.
La rapidità, l’astuzia, la tecnica e l’efficacia di quei combattimenti ci avevano stregato.
Cominciammo ad appassionarci a quella esile figura, scattante e fluida che si muoveva con agilità, tartassando i malcapitati con calci e pugni ed emettendo strani sibili e suoni grazie ai quali incuteva paura.
Ovviamente era il paladino dei deboli e questo per me, visto la fragilità della mia vita in quel periodo, rappresentava una sorta di “riscatto” nei confronti delle brutture della vita e della cattiveria dei miei coetanei.
Arrivò il giorno in cui i film di Bruce Lee terminarono.
Grazie a varie circostanze fortuite conobbi al mare un compagno di cabina.
Si chiamava Giuseppe Morello, ma tutti lo chiamavano Pippo ed era un Maestro di Karate.
Lo riempii di domande che scambiò per semplice curiosità ignorando che di li a poco avrebbe piantato in me un germe ben più profondo.
Mio fratello volle conoscerlo. Diventammo amici e Puccy decise anche di cominciare a praticare Karate.
Cominciò la sua avventura e dopo un po’ anche la mia. Avevo quattordici anni.
Mia madre si preoccupò, tuttavia fece una debole resistenza ma poi si arrese.
Il Maestro era molto rigoroso. L’estrema educazione sul tatami era d’obbligo. Fuori dal Dojo c’era un clima allegro e gioioso.
Gli allenamenti erano duri. A parte i fondamentali, avevo cominciato a fare Kumite. Non avevo paura ed affrontavo con una certa sfrontatezza ed incoscienza i miei compagni maschi. Non badavo alla loro altezza o al peso. Se mi facevo male, non tentennavo ben sapendo che anche la presenza del dolore fisico fa parte della pratica.
Avevo cominciato a fare anche gare di Kumite. Mi piaceva il combattimento. Lo trovavo più stimolante dei Kata e non lo nascondevo. Il Kumite mi dava una grande emozione, adrenalina.
Mi piaceva il confronto. Ero decisa, veloce, instancabile. Non essendo molto alta ovviamente utilizzavo poche tecniche. La mia tattica era: accorciare la distanza, anticipare l’avversaria, avevo Kime (espressione di contrazione massima di tutto il corpo, ovvero contrazione isometrica di ogni singolo distretto muscolare) e il mio Kiai (suono gutturale che accompagna i momenti “clou” di un kata o di un kumite, in cui si dirige la massima energia vitale per intimorire e sopraffare psicologicamente l’avversario) era cattivo, forte, più spaventoso di quanto fossi realmente.
Fu un periodo basilare per la mia formazione fisica e mentale. Il Maestro mi coinvolgeva, sapendo che la cosa mi piaceva, ma gli allenamenti non erano finalizzati solo alle gare. Facevamo preparazioni atletiche anche al di fuori delle lezioni come corsa, flessioni, training autogeno e soprattutto, ci dava una formazione interiore.
Stavo piano piano scrollando la mia insicurezza, la mia mancanza di autostima e il mio dolore sempre lì, sembrava a tratti più attutito.
Nonostante le preoccupazioni di mia madre dovute anche ad un piccolo infortunio in palestra che mi portò la rottura del naso, continuai ferma nel mio intento, fino a quando a causa di un incidente con lo scooter dovetti fermarmi.
Dopo essermi ripresa, appena il tempo di fare le mie ultime gare, quindi lasciai l’agonismo per sopraggiunti limiti di età è… il karate.
Passarono nove anni senza Karate. Anni importanti, intensi, belli, ma anche dolorosi… molto.
Dopo nove anni, ricominciai.
Devo ringraziare mio marito Vincenzo se ho ripreso. Lui, che ha praticato per diversi anni Aikido Yoseikan, mi ha spinto e incoraggiato a ricominciare il karate là dove l’avevo lasciato. Solo la sua sensibilità avrebbe potuto cogliere il valore di ciò che avevo accantonato e quindi comprendere come la mia fiamma non si era esaurita.
Per merito suo, questa meravigliosa esperienza non si è ancora conclusa ed oggi il mio Karate è molto più maturo.
Ad uno stage organizzato a Palermo dal Maestro Morello conobbi altri Maestri famosi e apprezzati nel panorama italiano, tra cui Santo Torre, Ilio Semino e Nando Balzarro.
Ed è proprio con quest’ultimo che ho continuato il mio percorso marziale.
Infatti dal 2012 seguo le sue lezioni e i suoi seminari.
Studiando i Kata in un modo da rimanerne affascinata, sono riuscita a non sentire più la mancanza del karate agonistico.
Si, perché bisogna distinguere il karate sportivo con l’arte marziale vera e propria. Il vero karate non è quello delle gare.
Non escludo che tra le esperienze del praticante ci debba essere anche il momento dell’agonismo, ma credo fermamente che si debba coltivare tutti gli aspetti dell’arte marziale.
La gestualità, la respirazione, la ricerca della purezza del movimento, l’efficacia, la potenza, la brevità dell’impatto, la contrazione, la decontrazione.
Tutto questo ed altro, in un connubio interno di corpo-mente-cuore.
La gara mette addosso una sensazione particolare. Permette di scoprire anche alcuni lati del carattere, di misurarti con te stesso.
Ti fa capire chi sei. Esce fuori l’istinto, quel qualcosa che non puoi imbrigliare, falsare, infiocchettare.
I miei Maestri: Pippo Morello prima e Nando Balzarro poi, sono stati due pilastri importanti per il recepimento della “mia” arte marziale, a prescindere dal risultato.
Quello che conta è cosa entrambi mi hanno trasmesso e che ho assimilato, come praticante e come persona.
Ogni giorno si assorbe qualcosa di più profondo che si innesta in ogni azione che si compie in qualunque contesto, in qualsiasi circostanza.
Il gesto, la misura del gesto, la tolleranza o il suo contrario, l’emozione, il dolore, la stanchezza, non sono più percepiti come prima.
L’arte marziale, si scolpisce dentro.
Anche quando smetti è un seme che non smette di germinare.