Nel 2006 il Metropolitan Museum di New York inaugurò una delle sue mostre più affascinanti sull’arte del ventesimo secolo. Era intitolata Glitter and Doom: German Portraits from the 1920s ed era una rassegna selezionata in modo magistrale delle opere di Max Beckmann, George Grosz, Otto Dix e di una serie di altri pittori meno noti – tra cui Karl Hubbuch, Ludwig Meidner e Christian Schad – risalenti al difficile periodo a cavallo tra la fine della prima guerra mondiale e l’ascesa al potere di Hitler. Concentrandosi principalmente sui ritratti, la mostra riuscì non solo a fornire un assaggio della repubblica di Weimar per come la conosciamo – una società stravolta da danni bellici inimmaginabili, da un’economia appena funzionante, da una situazione politica instabile e da una sessualità disinibita e spesso deviante – ma riuscì ad andare oltre. Accanto ai ritratti di grassi capitani d’azienda che masticano il sigaro, di veterani orribilmente mutilati, di prostitute e travestiti, la mostra forniva infatti una serie di volti affascinanti, sui quali l’osservatore poteva scegliere, o meno, di intravedere le tensioni dell’epoca.