Radio3suCarta. Italia – Germania 4-3

Tre colori. 150 storie della storia d’Italia è il programma quotidiano che nel 2011 Radio3 ha dedicato al centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. È andato in onda dall’11 gennaio al 5 agosto, tutti i giorni alle 14.00. Ogni puntata durava mezz’ora.

La trasmissione è nata dall’idea di raccontare un secolo e mezzo di vita nazionale attraverso 150 storie, una al giorno, sull’Italia, gli italiani e l’italianità. Oltre trenta voci narranti – storici, giornalisti, architetti, musicologi, scienziati, gastronomi, critici letterari, storici dell’arte – hanno raccontato i personaggi, gli eventi, i luoghi, i simboli, i miti, i libri, le opere d’arte, gli oggetti, le canzoni, le invenzioni e i cibi che hanno fatto l’Italia, da un lato come fenomeni storico-antropologici e dall’altro come elementi della coscienza collettiva.

In ogni puntata il racconto è stato arricchito da materiali sonori provenienti dagli archivi della Rai, da canzoni d’autore e dal repertorio della musica popolare italiana.

Il programma è stato curato da Federica Barozzi che ha realizzato il progetto con Lorenzo Pavolini, Maria Angela Spitella e Daria Corrias.

Sul sito: radio3pod.rai.it è possibile riascoltare tutte le puntate di Tre colori.

Carlo D’Amicis racconta Italia Germania 4-3

Puntata del 14 gennaio 2011

L’essenziale è invisibile agli occhi, ma qualche volta (in sottofondo, da lontano) è udibile alle orecchie. L’essenziale di Italia-Germania 4 a 3 («la partita del secolo», come la definì in un libro di qualche anno fa Nando Della Chiesa) non è il gol definitivo di Rivera o la staffetta con Mazzola, e nemmeno la voce di Nando Martellini che definisce «sofferenza e gioia» le due ore che portarono la nazionale italiana di calcio alla finale dei Campionati del Mondo del ’70, ma il grido folle e devastato che fa da controcanto al telecronista subito dopo la rete che fissò per sempre, nei tabellini e nel nostro immaginario, il punteggio di quella epica sfida. Mentre Martellini dice: «Rivera… ancora… quattro a tre… che meravigliosa partita, ascoltatori italiani», un urlo martellante (a chi appartiene? A un tecnico del suono, al regista, a un tifoso di passaggio nella sua cabina?) si fa largo fino al microfono e raggiunge, più che le case di milioni di italiani, il loro inconscio: l’inconscio di un intero Paese. Vinciamo, dice quella voce. E poi lo ripete, e lo ripete ancora, quasi in lacrime, con una rabbia mista a tenerezza, battendo sulla a, cosicché amo entri più chiaramente in quel vinciamo, e si riveli così a tutta la nazione che qui non si tratta soltanto di vittoria, ma di rivincita. In fondo, dalla liberazione dai tedeschi sono passati poco più di venticinque anni, e adesso basta soffrire, basta sacrifici. Adesso, sì, vinciamo noi.

Sulle tribune dello stadio Atzeca di Città del Messico, alle ore 16 di mercoledì 17 giugno 1970, i cartelloni pubblicitari sono rivolti a una fruizione via satellite da parte dei telespettatori italiani e tedeschi, molto più che al pubblico locale (103.000 messicani che Gianni Brera avrebbe definito il giorno dopo nel suo articolo sul ‘Giorno’ «pori nan», dei “poveri nani”). Per lo più campeggiano reclame di apparecchi televisivi (Philco e Philips), di aperitivi e superalcolici (Cinzano e Martini&Rossi), di sigarette (Marlboro e Rothmans). Icone di un benessere quotidiano che ha sempre più dimestichezza con il superfluo. Anche il calcio, in teoria, è un bene voluttuario. Ma siamo ancora molto lontani dalla deriva consumistica che, a forza di sponsor, pay tv e ingaggi miliardari, lo renderà nel giro di un trentennio uno dei grandi business del pianeta. La Rai si collega con il Messico poco prima di mezzanotte: nessuno spazio pubblicitario precede o interrompe la partita. Anche negli intervalli dei supplementari, quando l’ascolto è massimo, si resta ancorati a una sghemba didascalia in sovraimpressione che annuncia il tiempo extra. Nemmeno un mese prima, il 20 maggio, era stato istituito lo statuto dei lavoratori che tutelava i diritti dei lavoratori dipendenti. Per la prima volta, nelle fabbriche, è legittimo riunirsi in assemblee. Molte, quella notte, se ne formano spontaneamente nelle case e nei bar. E sono trasversali, come raramente accadeva in anni in cui la lotta di classe e quella generazionale dividevano ancora in modo netto, univoco, società e famiglie.

Calcio e tv hanno il potere di riunirle, ma con cautela, quasi con diffidenza: la nazionale, nei quarti di finale, ha appena battuto i padroni di casa del Messico con un rotondo 4 a 1, ma è ancora fresco il ricordo degli ultimi Mondiali, quando una «squadra di Ridolini», come il commissario tecnico Edmondo Fabbri definì alla vigilia la Corea, ci inflisse l’onta di un’eliminazione rimasta proverbiale. È vero, ora alla guida dell’Italia c’è Ferruccio Valcareggi, allenatore di cui, a quattro anni dall’inizio del suo incarico, non sono ancora ben distinguibili meriti e fortune: due anni prima la nostra nazionale aveva sì vinto i campionati europei, ma era stata decisamente aiutata da un sorteggio benevolo quanto naif, effettuato con una monetina al termine della semifinale con l’Unione Sovietica, conclusa in parità. Dopo quell’episodio, quando le cose si mettevano male, accadeva spesso di trovare sui quotidiani sportivi l’augurio a toccare, anziché ferro, “Ferruccio”. Comunque sia, la squadra assemblata da Ferruccio Valcareggi intorno all’ossatura del Cagliari campione d’Italia (eh sì, perché quelli erano ancora tempi in cui in Italia una squadra come il Cagliari poteva aggiudicarsi uno scudetto) non partiva certo favorita contro i panzer tedeschi: il rapinoso bomber Gerd Muller, il kaiser Franz Beckenbauer, il portiere dagli enormi guanti (in un’epoca in cui il 90% dei numeri uno andava tra i pali a mani nude) Sepp Mayer… Insomma, la Germania faceva paura. Anche l’Italia, per la verità, aveva un campione consacrato: in virtù dei successi con il Milan nella Coppa dei Campioni e in quella Intercontinentale, pochi mesi prima Gianni Rivera si era aggiudicato il Pallone d’Oro, trofeo che premia il miglior calciatore europeo della stagione. Valcareggi, però, preferiva inizialmente tenere Rivera in panchina, per poi inserirlo nel secondo tempo al posto del suo rivale in campionato, il capitano interista Sandro Mazzola. Una decisione che i giornalisti, in riferimento all’omonima gara di atletica leggera, avevano subito ribattezzato la staffetta. Tre giorni prima, a Toluca, il golden boy aveva trasformato l’incerta sfida con il Messico nei quarti di finale in un monologo azzurro, ispirando nella ripresa una doppietta di Riva (altro giocatore molto atteso, ma fino a quel momento inconsistente) e segnando lui stesso, con talento e caparbietà, una magnifica rete. Contro la Germania, così come poi accadrà nella finale con il Brasile, Rivera ricomincia però dalla panchina.

Le squadre entrano in campo allineate dietro a quella che allora (non a torto, osservando la giubba allacciata sul davanti) veniva chiamata la giacchetta nera: è l’arbitro d’origine giapponese Yamasaki, che anni dopo, rievocando la partita, Sepp Mayer avrebbe disinvoltamente definito “un idiota”. Dirigerà (in realtà non così male come sostiene il portiere tedesco) turbato dal terremoto che un paio di settimane prima aveva colpito il suo paese d’adozione, il Perù, provocando 70.000 vittime. Le squadre sono schierate a centrocampo: in Italia i tv color non esistono ancora, ma tutti sanno che la nostra maglia è azzurra, e che lo scudetto all’altezza del cuore contiene il tricolore. Quello che non sanno è che sta per comporsi una pagina di storia non solo sportiva, un evento destinato a farci più italiani, un marchio linguistico, così potente da dare il proprio nome anche a dei film (italiagermania4a3, come se fosse un’unica parola). Sarà subito al fischio finale, che quella partita diventerà per tutti un’ossessione. Tanto che la straniante bossanova con cui Fausto Cigliano prima e Mina poi canteranno, quella stessa estate, le gesta degli eroi dell’Atzeca, s’intitola proprio Ossessione 70.

In qualunque storia, a maggior ragione in quella sportiva, errori e casualità sono importanti almeno quanto le cose giuste, fatte bene con tutte le intenzioni. Si toglie dunque epicità e senso a Italia-Germania 4 a 3 se la si rivede come una galleria di sbagli? Certamente no. Del resto, dopo essersi definito «sfinito per l’emozione», troppo stremato per attaccare il suo pezzo, come sarebbe stato giusto, «secondo i ritmi e le iperboli di un autentico epinicio» oppure affidandosi al ditirambo, il più sfrenato e autorevole giornalista sportivo italiano, quel Gianni Brera che aveva a suo tempo ribattezzato abatino (ovvero cicisbeo fragile, elegante e manierato) l’eroe della partita, scrive a caldo nel suo articolo: «Sotto l’aspetto tecnico tattico, Italia-Germania è da ricordare con vero sgomento. Sia gli italiani sia i tedeschi hanno fatto l’impossibile per perderla. Vi sono riusciti i tedeschi. Evviva noi! Errori ne sono stati commessi millanta, che tutta notte canta. I tedeschi ne hanno forse commessi meno di noi, ma uno solo, madornale, è costato loro la partita». L’errore fondamentale dei tedeschi, Brera non lo manda certo a dire, è quello di essere, testualmente «proprio tonti», ovvero di offrirsi sistematicamente al gioco per il quale noi italiani siamo nati: difesa e contropiede. Di fatto gli azzurri, per i 90 minuti regolamentari, sembrano i soli capaci di trasformare in un gesto maestoso e vincente (il rasoterra di sinistro con cui Boninsegna infila Mayer al nono minuto di gioco) un maldestro balbettio di Riva. «Ancora oggi» ricorda l’ex centravanti dell’Inter «sono convinto che il passaggio che Riva mi fece fu un controllo mancato. Quanto a me, quando mi restituì il pallone, non sapevo proprio cosa fare. Tirai, e feci gol». Quasi un affronto, queste dichiarazioni, all’ostinazione dei tedeschi, che da quell’istante si riversano in massa nella nostra metà campo, determinati, convinti che volerlo a tutti i costi, e meritarlo, li avrebbe condotti infallibilmente al pareggio. Traversa di Overath. Salvataggio sulla linea di Rosato. Albertosi che vola all’incrocio dei pali. La Germania fa tutto come si deve, ma non passa. Passa il tempo, invece, e gli italiani, a casa, guardano l’orologio sorpresi di essere ancora svegli non meno di ritrovarsi ancora in vantaggio. Ancora pochi istanti, si dicono, e potremo andare a letto, felici ma anche un po’ imbarazzati per aver raggiunto la finale grazie a quella difesa a oltranza, all’italiana. E invece no: quella notte non finirà in camera da letto, ma nelle piazze. Non vergognosi di tanto italico machiavellismo applicato al calcio, ma fieri di essere stati rappresentati in modo nuovo: coraggioso, testardo, un po’ incosciente. Un minuto di recupero, quasi due. La Germania attacca ancora. Attaccano tutti, o forse no: quel difensore aitante e biondo che esce dalle retrovie, noto al pubblico italiano per il fatto di giocare nel Milan dal ’65, sembra avanzare con intenti estranei alla partita: «Per me era finita» confesserà in seguito. «Mi stavo avvicinando all’area di rigore dell’Italia solo perché l’ingresso dello spogliatoio si trovava da quella parte.» Karl Heinz Schnellinger aveva disputato fino a quel momento 222 partite nel nostro campionato. Numero di gol realizzati: zero. Forse per questo nessuno si preoccupò di lui. Grabowski, sulla fascia sinistra, s’infila tra Domenghini e Boninsegna, retrocessi in difesa, e riesce a effettuare un cross che sorvola Rosato e ricade poco prima di Facchetti. Là in mezzo c’è Schnellinger, che in spaccata colpisce. La regia messicana inquadra sugli spalti i tifosi esultanti: anche gli spettatori neutrali, irritati dal nostro difensivismo, si sono schierati contro di noi. A casa gli italiani, da tanti che eravamo, si sentono improvvisamente soli, smarriti. Il telecronista Nando Martellini accenna a una velatissima polemica: insiste sul recupero di due minuti, si arrischia fino a definirlo “clamoroso”, ma poi la sua estrema signorilità prevale. Niente da dire (erano i tempi in cui un telecronista poteva anche permettersi di tacere).

Palla al centro e supplementari. L’immagine del nostro avversario più forte, Franz Beckenbauer, che ricomincia a giocare con il braccio destro al collo, non rivela la debolezza un avversario ferito, ma la forza di un nemico che non si arrenderà. La resa italiana, invece, sembra quasi volontaria, come se la nostra squadra volesse accorciare i tempi della fine. Intercettando un colpo di testa di Uwe Seeler, Bertini trascina il pallone con il petto nella direzione sbagliata, verso la nostra porta. Sbaglia Cera a lasciarlo andare. Sbaglia Albertosi a non tuffarsi. E ancora una volta tre errori fanno un gol: lo segna Muller, con una deviazione così lenta che nel riguardarla al rallentatore (la scritta replay trema sullo schermo) non si nota la differenza con l’originale. Ma la storia ha bisogno di altri errori: lo commette Vogts, facendo fallo su Riva. Lo commette Rivera, indirizzando la punizione su Held. Lo commette il giocatore tedesco, rinviando su Burgnich, un altro che (difensore com’è, senza permesso di avanzare) si trova al posto sbagliato, nel cuore dell’area avversaria. Almeno il tiro sarà scagliato a regola d’arte? Macché: commenta oggi l’ex terzino dell’Inter che se avesse avuto un impatto pieno con il pallone avrebbe centrato in pieno il portiere. Lo colpisce invece di esterno sinistro, quasi svirgolando, ed è 2 a 2. Si ricomincia a giocare, e anche a sperare. Quando Riva, dopo un meraviglioso controllo in corsa, infila una diagonale rasoterra a fil di palo, torniamo a sentirci forti, eroici, vincenti. L’esultanza del cannoniere del Cagliari è spontanea, liberatoria, ormonale, quanto di più lontano dalle stucchevoli coreografie dei calciatori del Duemila, che studiano passi di danza da esibire dopo ogni rete. Come avrebbe fatto Tradelli 12 anni dopo, nell’immagine copertina più potente e rappresentativa del calcio italiano, Riva corre urlando verso il nessun luogo che solo chi ha appena segnato un gol conosce. Sulla sua strada trova Rivera. Gli si avvinghia al collo. Lo trascina a terra nell’abbraccio.

Il breve intervallo tra il primo e il secondo tiempo extra, per noi, non è attesa di ricominciare, ma attesa di finire. Martellini già definisce la partita «drammatica e incredibile»: siamo paghi, i tedeschi sembrano vinti, ma – si è già detto – questa non è partita da vincere, ma da rivincere, e rivincere ancora. Una rivincita contro il nostro essere italiani pavidi e sparagnini. Per arrivarci, però, la storia pretende ancora sbagli e, forse sapendo che sarà lui il deus ex machina, il nome inciso per sempre tra gli eroi, impone a Rivera di arrivare all’appuntamento con se stessa a capo chino, infamato ad alta voce da Albertosi, e in silenzio dal resto della squadra, per non essere riuscito a intercettare una beffarda incornata di Gerd Muller.

Colpisce, tra i tanti ricordi di quella partita, la naturalezza con cui Boninsegna definisce amici gli altri giocatori in maglia azzurra. Un calciatore, descrivendo delle fasi di gioco, non usa mai questa parola. Parla di compagni di squadra, mai di amici. Dice Bonisegna che ripartì “con i suoi amici”, a testa bassa. Affondò sulla sinistra. Voleva tirare, ma, neanche a dirlo, sbagliò il controllo e fu costretto al cross. Il resto l’abbiamo visto dieci, cento, mille volte. Un’inerzia che trascina verso il lato destro del campo non solo il pallone, ma tutti i giocatori in campo, e con essi milioni e milioni di occhi che li stanno a guardare. Un flusso massiccio, potente, di sguardi e di energie, che improvvisamente si arresta contro il piede del giocatore più italiano di sempre: un genio, sì, ma anche un delicatissimo congegno di fragilità fisiche e mentali. Con un tiro indefinibile, né lento né veloce, né centrale né angolato, né bello né brutto, Rivera interrompe questo flusso e prende tutti in controtempo. Sepp Mayer, proteso in tuffo nell’opposta direzione, allunga la gamba per arpionare il pallone. Inutilmente. La rete si gonfia, candida e lieve. Riva e Rivera si stringono in una figura di tango, mentre i compagni (pardon, gli amici) festeggiano ebbri di gioia. «Meno che il bacio in bocca, in quella partita abbiamo fatto di tutto» commenterà De Sisti con disinvolta arguzia romanesca. Ma è incredibile che, nell’abbracciarsi, i nostri giocatori già rientrino verso il centrocampo, stremati ma pronti a ricominciare. Oggi, dopo un gol così, nel calcio italiano passerebbero almeno tre minuti tra balletti e perdite di tempo.

Ma il calcio di questa notte è di un’Italia che non t’aspetti, e forse non è nemmeno calcio. È trasfigurazione di un gioco che, nell’andare oltre se stesso, per una notte ha smesso di essere sport e torna a essere tale: un gioco. Un gioco come quelli che si facevano da bambini, quando la regola numero uno era non arrendersi, e la seconda che si smette di giocare solo quando fa buio, e non ce la fai più. È buio, in Italia, ma migliaia di fari illuminano le piazze: un carosello di automobili anima la festa. Per la prima volta una partita di calcio porta la gente fuori dalle casa, ad abbracciarsi senza conoscersi, e a conoscersi con un abbraccio. In realtà, così come Italia Germania 4 a 3 non è una vittoria, ma una rivincita, questa conoscenza non è conoscenza, ma riconoscenza. Verso una squadra che, per 30 minuti, ci ha portati fuori dal tempo (in un tiempo extra, appunto), nel quale, per una volta, i più tenaci, i più coraggiosi, i più generosi eravamo noi.

CARLO D’AMICIS (1964, Taranto) vive e lavora a Roma dove collabora dal 1983 ai programmi di Radio3, in particolare da oltre dieci anni è autore e conduttore di Fahrenheit. Ha pubblicato i romanzi Piccolo Venerdì (Transeuropa, 1996), Il ferroviere e il golden gol (Transeuropa, 1998), Ho visto un re (Limina, 1999), Amor Tavor (Pequod, 2003), Escluso il cane (Minimum fax, 2006), La guerra dei cafoni (Minimum fax, 2008), Maledetto nei secoli dei secoli l’amore (Manni, 2009), La battuta perfetta (Minimum fax, 2010), Il Grande cacciatore (:duepunti, 2011).

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