Ferdinando Balzarro

Spazio Virus

Per la prima volta dalla seconda grande guerra, si affaccia nel panorama mondiale un nemico sconosciuto ed implacabile in grado di sfidare e mettere a dura prova la normale esistenza del genere umano. La sua insidia sta nell’affacciarsi come una innocua influenza curabile ma, ben presto, la sua propagazione virulenta intossicherà le nostre vite e le nostre anime. L’incidenza mortale e l’impressionante rapidità di contagio, colloca la pandemia provocata dal virus Covid 19 tra le più devastanti del secolo. Spazio Virus, scritto in perfetta sintonia quotidiana con il blocco totale imposto dallo stato su tutto il territorio nazionale, scandisce i momenti drammatici affrontati da moltissime nazioni, in particolare l’Italia. Ne emerge un racconto giornaliero profondo, sensibile e accorato. L’autore vive in prima persona l’effetto di una solitudine fisica e psicologica durata sessanta giorni, periodo stabilito per il lock down. Non è un semplice diario cronaca. Esso, rappresenta un filo sottile ed emozionale che collega la nuova vita quotidiana del protagonista alle desolanti notizie che, giorno dopo giorno, caratterizzano uno dei periodi più difficili e pericolosi che la scienza dell’intero globo abbia mai dovuto affrontare. In questo testo raffinato, a tratti sconcertante, duro e romantico, Balzarro raccoglie ed elabora le percezioni, gli stati d’animo, le contraddizioni e gli umori che caratterizzeranno il dramma di questo imprevedibile scorcio di storia.

SPAZIO VIRUS Diario di una pandemia – Om Edizioni – Quarto Inferiore (BO)

SPAZIO VIRUS • 1

QUANDO IL MAESTRO NON C’È

Impossibile! Impossibile che il maestro non ci sia. Fisicamente può essere non si veda. Può essere non si senta risuonare la sua voce. Può essere vengano meno i comandi, le correzioni, gli incitamenti, le rare approvazioni. Può essere quei suoi gesti, quell’armonia, quella mai esausta precisione, non compaiano con così suadente evidenza davanti ai nostri occhi. Ma che egli sia lì, lì accanto a noi, ma no… non ci sono dubbi! Il maestro non può essere solo un corpo, un’azione, un vibrante movimento, un percepibile suono. Il maestro o c’è sempre o non c’è mai. Il maestro è dentro di noi, dentro la carne, dentro lo spirito, alla stregua del fuoco di passione che né pioggia, né raffica di vento, né malefico virus, osino spegnere.


SPAZIO VIRUS • 8

IL SILENZIO DEL CORPO

Niente strette di mano. Niente abbracci e baci. Basta fare all’amore.

Minimo un metro di distanza l’uno dall’altro. Tenere gli occhi bassi oppure osservarsi con sospetto e diffidenza. Nessuna attività all’aperto come correre, camminare, passeggiare nei prati e liberi esercizi. Al corpo è impedita ogni forma di espressione motoria… bè, per la verità in casa un po’ ti puoi muovere, sgranchire le articolazioni, fare addominali con i piedi ancorati al divano, per non parlare dei piegamenti sulle braccia o le trazioni alla sbarra se c’è una sbarra, slanci delle gambe per cosce e glutei e adduttori. Per noi poi, fieri samurai karateka, non si tratta altro che tornare all’antico, laggiù nel buio fondo delle cantine, sotto ammuffiti sottoscala, tra le sordide pareti di un garage.

Oppure, come ci racconta il nostro “padre fondatore”, G. Funakoshi, addirittura sul tetto di casa, ma questa volta esposti a venti freddi o pioggia battente, o sole cocente, più seri rischi di precipitare al suolo e rompersi qualche ossa. Insomma, in qualche modo questo nostro povero corpo, forgiato per muoversi nello spazio, respirare aria pura, assorbire energia dai raggi solari, annusare il profumo dei fiori, ché la primavera è imminente, non va abbandonato. Ma temo che durante questo spazio temporale, sospeso tra incredulità, stupore, paura e rabbia, speranza e morte, perdere del tutto il rapporto con esso ci sarebbe letale… letale per ossa, muscoli sangue e cuore, letale per la psiche, letale per ogni tipo di umana espressività. Facciamo quanto possibile per non ridurre a macabro silenzio il nostro fisico, perché la parola può tacere, il corpo no.


SPAZIO VIRUS • 12

SI PUÒ DIVENTARE MIGLIORI ACCUMULANDO LONTANE IGNORANZE

Troppi fasci di nervi a contatto tra loro. Troppi fili annodati in un groviglio vivente. Nel labirinto del corpo umano si sente come un rumore di oceano, una specie di menomazione dell’essere. Ci chiedono giustamente di schivare più che possiamo i nostri simili. Per cui quello che prima poteva accadere per banale antipatia, timore del diverso, snobismo sociale, gretta ignoranza, per non dire discriminazione razzista, ora diviene obbligatorio, necessario per la sopravvivenza, bene supremo per tutta l’umanità. Allora ecco che, improvvisamente, sentiamo la mancanza dell’altro, ci interessa lo sconosciuto, ci piace il diverso colore della pelle, avvertiamo impellente il bisogno di abbracciarci, stringerci la mano, baciare labbra e guance, accarezzare morbidi capelli. Le lunghe ore di solitudine, di distacco, di silenzio, nei comodi arresti domiciliari in cui ci troviamo, si fanno pesanti come pietre. Capiamo oscuramente che, con violenza o con dolcezza, da questo stato non possiamo fuggire. L’unico amabile pensiero che invade la mente è la speranza che, dopo questo buio entro il quale abbiamo sentito ululare le ombre, ognuno, nel suo insieme, ne esca migliore. Questo l’auspicio. Questo il sogno. Questa l’illusione.


SPAZIO VIRUS • 16

NESSUNO PUO SALVARSI DA SOLO

“Nessuno può salvarsi da solo”. Questo ci ha detto un vecchio affaticato vestito di bianco, al riparo di un prezioso baldacchino incongruo, solo ed impietrito al cospetto di una piazza deserta, smaltata dalla pioggia, resa magica dal pallore fuggevole di suggestivi faretti. “Nessuno può salvarsi da solo”, ha sentenziato Papa Francesco, prima di benedirci ed emendarci da peccati mai commessi per alcuni, esorbitanti per altri, ché mica siamo tutti uguali, qui su questa vasta Terra. Forse avrebbe dovuto aggiungere: “nessuno può morire in compagnia” ché, nel momento più angoscioso, quello del trapasso, nessuno, se non attraverso il monotono cantilenare di un rosario, può accompagnarci. Specie in questi giorni quando mai come ora chi muore, muore solo. Chissà dov’è mio figlio pensa il padre, e mio nipote dove sarà, e mio marito, e mia sorella, e il mio amico? Poi arrivano le fiamme e l’odore pungente di carne bruciata, e tutto finisce. Persino Gesù, inchiodato su quella croce lorda di sangue, è morto solo… come possiamo dimenticare il suo urlo disperato un attimo prima di implorare il perdono per l’umanità che si accingeva a salvare con la morte più straziante e tormentosa che si possa immaginare. “Perdona loro…”. Macché, macché, nessun perdono per chi non lo merita. Nessuna plenaria indulgenza. Nessuna pietà salvifica. Gli uomini che, con tutta evidenza, “ancora non sanno quello che fanno”, ancora non hanno capito cosa combinano giorno dopo giorno, anno dopo anno, millennio dopo millennio, non possono ambire al perdono. Oppure solo a noi stessi è dato perdonare, espiare col sangue e con le lacrime i nostri peccati e quelli dei padri e quelli dei figli, e dei figli, e dei figli, “in saecula saeculorum”.


SPAZIO VIRUS • 21

TRAINING DAY

Il ritmo con il quale colmo questo esiguo spazio sono nel mio corpo, nelle mie azioni, nei miei riflessi. Non c’è più nulla di me che non mi distingua, che non mi rappresenti, che non imponga il suo stile. L’arte che, quasi fosse un destino, esercito da anni, non va neppure citata. Ogni manifestazione umana quando si elevi oltre le grevi e necessarie norme esistenziali, di fatto può considerarsi “Arte”. Lo sanno bene i poeti che fanno risuonare e vibrare il canto della vita come un fiore od una pietra fa risuonare in sé l’esistenza dell’immenso. Immenso che per alcuni sta qui sulla Terra mentre per altri necessita evocare il cielo, e l’universo, infine Dio. Ma c’è poco da volare. Questa è la stanza. Questi gli spigoli limitanti. Questo il pavimento di piastrelle. Comprimo su caviglie ginocchia e fianchi quel passo, quell’affondo che invece abbisognerebbe di vasti e lucidi Tatami, aderenti ad alte pareti adorne di immagini austere. Qualcosa di sacro nello sguardo. Sì! Sono loro. I maestri che ci hanno preceduto, i maestri che ci hanno insegnato, pazientemente corretto, duramente ripreso. Volgo il capo alla ricerca di un avversario invisibile, un contendente immaginario, un nemico mai esistito, qualcuno da cui difendermi, qualcuno da colpire a morte. Trovo solo me stesso e a volte neppure quello. Quanto è difficile essere all’altezza della propria solitudine, del proprio smarrirsi in così poco spazio, e della bellezza che inconsapevolmente qualche volta stiamo creando. D’improvviso mi viene voglia di ripiegare verso quella mesta e patetica saggezza a cui si fa ricorso nei momenti peggiori. La saggezza degli sconfitti. La rassegnazione dei vinti. La superata sapienza dei vecchi. Ma no, vagamente oppresso da queste mura incombenti, con gesti accurati e precisi, disperdo fantasia e follia. Ruoto su me stesso, lancio gli arti come fionde nel vuoto entro cui ormai dilaga la luce ambigua della sera. Questo è il mio spazio nudo. Qui cerco riparo dall’oppressione del pensiero fisso. Qui mi sforzo di ingannare il tempo, persino la memoria.


SPAZIO VIRUS • 26

SENZA VOLTO

L’immaginazione degli uomini è cosa robusta.. Talmente robusta da tingere con il colore preferito il rosso sangue della tragedia, o il delicato azzurro dell’idillio marino. Penso a come iniziò questa “faccenda” di forzata clausura, e come ebbe il repentino potere di esaltare un bisogno pressoché frenetico di abbracciarsi, parlare tenendosi la mano, correre per campi e valli, cavalcare purosangue su spiagge sconfinate, allenare strenuamente corpo e spirito dentro attrezzate palestre o tra le aiuole dei parchi. Tutto questo in ossessiva ottemperanza al detto “mens sana in corpore sano”. A poco a poco, la prudenza, la calma, la gravità, la moderazione, la lentezza maestosa e passiva sembra affiorare, per certi versi imporsi su altre esigenze considerate irrinunciabili. Ma c’è un particolare con cui ancora dovremo prendere dimestichezza e, con buona probabilità per parecchi mesi sarà necessario imparare a convivere. Ne ho colto qualche primo sentore questa mattina mentre mi aggiravo nei pressi della mia abitazione per l’acquisto dei viveri giornalieri. I pochi passanti, come me rigorosamente mascherati, mi sono apparsi come figure senza volto, privi di espressione, derubati di identità. In effetti, come avviene in ogni piccolo quartiere, più o meno ci si conosce tutti. Anche se non si saluta, ci è ben chiara e nota la fisionomia del vicino, del bottegaio, del giornalaio, di quella ragazza che porta fuori il cane sempre alla stessa ora, del signore anziano che trascina i piedi ma sorride sempre. Ecco: “sorride”. È palese che dovremo rinunciare ad una delle più belle manifestazioni mimiche che all’uomo sia concessa… il sorriso: labbra che si schiudono, dolci fossette sulle guance, l’allegro tremore del mento, leggero rossore degli zigomi. Sì, d’accordo… possiamo sorridere ugualmente sotto la mascherina che copre bocca e naso, ma certamente nessuno potrà accorgersene e rallegrarsene e cogliere un radioso istante di simpatia, di buon umore, di accoglienza, di gratitudine. Inoltre, sorrisi a parte, lo stesso scontato riconoscimento dell’amico, del parente, dell’insegnante si rivela complesso. È lui o non è lui? Ci chiederemo più volte. Si cercano affannosamente particolari nel modo di vestire, segni familiari in ogni gesto, andatura, sguardo. Va bene, va bene… gli occhi non sono nascosti, e non è poco. Poi ci sono i capelli, il colore, il taglio. Senza volto quindi, ma non del tutto. Anche se ben sappiamo che solo attraverso la faccia ci è concesso esprimere la sensazione di contatto con l’altro. Solo attraverso il viso filtrano emozioni, debolezze, paure, meschinità, turbamenti, eccitazioni, ripugnanze. Di nuovo occorre accontentarsi, imparare l’arte della sopportazione, in attesa torni il mondo… quello chiuso là fuori, per ora lontano, mascherato, senza volto e forse anima. L’amore per il “prossimo”, che dovremmo amare come noi stessi, si fa sempre più astratto. Difficile amare chi neppure ci è dato riconoscere. L’amore è una grazia sfuggente che ha bisogno di troppe conferme per manifestarsi, almeno quella minima di sapere chi abbiamo di fronte. Ma l’incipit del mio scritto ragionava di “robusta immaginazione degli uomini”. Così, ancora una volta ad essa dovremo ricorrere per lasciarci alle spalle almeno per un po’ quel freddo senso d’angoscia che da troppo ci attanaglia. Allora mi affaccio alla finestra e vedo passare nell’aria trasparente e celeste, le veloci figure dei cervi, dei lupi grigi e azzurri, delle aquile e delle otarde.


SPAZIO VIRUS • 42

LE PAROLE CHE PIÙ NON CONOSCO

Ora che ho scordato le parole. Ora che ne ho smarrito il senso. Di quali frasi sarà composta la mia vita accanto a te? E quale sarà la tua immagine? Quanto diversa da quella sognata? Nel frattempo il mio viso ha perso le note sembianze. Un travaglio di lineamenti scomposti cercano di farsi largo nel folto incombere della barba, sotto il bianco scombinato dei capelli, oltre l’accesa foga dello sguardo. La mia voce appare seppellita nel precipizio di un forzato mutismo. Non sempre ne riconosco il suono, quando parlo a me stesso per convincermi di non essere ferocemente solo anche questa notte. Sento il bisogno di presenze per attraversare il buio. Aspetto. Mi esercito a vivere un’attesa di cui non so nulla. Mi alleno a vivere la sua fine, la fine promessa di qualcosa che forse fine non avrà. Invece di andare a scoprire sino a dove può portarmi la stanchezza, cerco di sfuggirle, di invertirne la direzione. Tento di assentarmi sino a quando mi sentirò meno vulnerabile, semplicemente più vivo. Cosa sarò capace di dirti quando sfiorerò i tuoi capelli di miele? Quando bacerò il cielo racchiuso nei tuoi occhi?


SPAZIO VIRUS • 56

UMANESIMO E VIRUS

“Col nome di umanesimo si può definire un’etica di nobiltà umana. Orientata verso lo studio e l’azione, essa riconosce ed esalta la grandezza del genio umano, e la potenza delle sue creazioni, contrapponendole alla forza bruta della natura inanimata. Sua norma essenziale è lo sforzo compiuto dall’individuo per sviluppare in se stesso tutte le capacità umane, senza trascurare nulla di ciò che fa grande l’uomo e lo magnifica”. Non pensateci nemmeno per un attimo che abbia riproposto a memoria tale definizione che, viceversa, ho dovuto ripescare da un testo su cui molti anni or sono provai a studiare. Per chi fosse interessato, trattasi de “Le civiltà europee” di Fernand Braudel. L’utilizzo del termine “provare” non è affatto casuale visto che, come per molti altri studi, i miei tentativi di capire sino in fondo ciò che mi si voleva insegnare, finivano tragicamente disattesi. Non fui mai studente modello in effetti. Però, quando un argomento mi interessa, almeno tento di ragionarvi sopra, spesso restando campato in aria a svolazzare con i miei crescenti dubbi. In questo caso tenterò un improbabile collegamento con la fase uno e la fase due di questo momento “storico” che verrà ricordato certamente, nonché studiato sui testi scolastici, come epoca del Corona virus, per la precisione Covid 19. La definizione di Augustin Renauder sull’umanesimo, appena citata, parte in quarta con una frase sbalorditiva per chiunque, con un minimo di obbiettività realistica, osservi gli attuali comportamenti umani. Infatti parla di “etica di nobiltà”. Continua poi assai allegramente passando dal riconoscimento del genio e delle sue creazioni in contrasto (tipo S. Giorgio contro il drago) con la forza bruta della natura inanimata. Ebbene, questa temibile “forza bruta della natura inanimata” altro non sarebbe che la nostra povera sfortunata Terra che, più che minaccia per i geniali esseri umani, giudicherei vittima della loro sconsiderata potenza creativa… forse dovrei dire quello che scrivono gli antropologi, cioè: potenza distruttiva. Con un po’ di forzatura, pur essendo anche troppo “animato” data la velocità con cui si propaga, potremmo considerare degno esponente di questa forza bruta e inanimata, il nostro sgradito stretto conoscente, il virus. Va bene… ammetto che, in questo caso i ruoli si sono invertiti: la natura più o meno inanimata si fa carnefice a spese dell’uomo, innocente debole vittima. Le parole finali della definizione di umanesimo mi esaltano, infatti recita così: “…senza trascurare nulla di ciò che fa grande l’uomo e lo magnifica”. Oh certo! Con la pomposa conclusione “lo magnifica”, devo riconoscere che Braudel mi ha convinto. L’uomo, nel caso già non nasca “magnifico”, ha l’etico dovere di diventarlo… “magnifico” intendo. Sperando di non suscitare le ire funeste di molti lettori, azzardo sostenere che il mito dell’”umanesimo” tout court, è da ritenersi da tempo fallito. “Spero” (parola a me aliena considerato come statisticamente ogni speranza rimanga delusa), che sommando geometricamente la fase uno alla due e, prima o poi, alla fase tre, più che aspirare alla propria presunta “magnificenza” da dominatore del mondo animato ed inanimato, l’uomo provveda, in tempi super rapidi, ad entrare in equilibrio con l’universo che lo circonda, salvando contemporaneamente se stesso e il pianeta che, ahimé suo malgrado, lo ospita.

 “L’ostinazione a voler uscire da una tragedia che non ha via di uscita, che si radica nell’ontologia umana. Ecco, forse, umanesimo è, in ogni tempo e in ogni luogo, anche questo: trarre il meglio dal peggio.” (Massimo Cacciari) 


SPAZIO VIRUS • 58

NARCISO

Provo il vero senso di isolamento solo durante il tragitto da un luogo all’altro, in pratica quando non si è in nessun luogo. Per questo motivo, da sempre, conservo una naturale idiosincrasia nei confronti del “viaggiare”, quindi spostarmi anche di poche miglia da una terra all’altra, non tanto per il mancato desiderio o curiosità di conoscere altri posti, costumi, panorami, colori e climi, bensì non potermi sottrarre da quello stato di smarrimento, di sospensione e di assenza che inevitabilmente comporta ogni trasferimento territoriale, qualunque sia il mezzo di trasporto. Ecco, appunto quel senso di emotivo struggimento che risulta dall’essere qui, senza un qui preciso, o un altrove lungi dall’essere raggiunto. Chiunque mi sia amico credo che, senza tanti giri di parole, mi consiglierebbe un buon medico, possibilmente specializzato in paranoie infantili mai rimosse. In pratica quei famosi complessi che, se non risolti, restano sospesi fra conscio e inconscio, come il fumo di una sigaretta sotto le lampade. D’altra parte, parliamoci chiaro, chi in buona fede può considerarsi del tutto esente da qualche significativo complesso? Inoltre ogni complesso potrebbe avere un suo perché, quel quid che ci contraddistingue da altri. In fondo ognuno ha il suo modo di stare al mondo e forse, senza averne coscienza, avrà anche il proprio modo di andarsene… dal mondo. Personalmente, in generale, tendo ad affezionarmi a tutto ciò con cui divido profondi silenzi e luminosi spazi di tempo. Onde per cui, più che a compagne per la vita, affezionati amici, parenti stretti, i quali, se non è oggi è domani, tutti in altre faccende affaccendati se ne vanno, mi affeziono ai miei difetti, ai miei complessi, ai miei peccati di gioventù e non solo a quelli. In definitiva tutto ciò che, volente o nolente, fa si che io sia io. Mi piace pensare ci siano ancora cose che potrò fare a modo mio, libri da legger a modo mio, persone da amare a modo mio. Se per caso tali dichiarazioni dovessero indurvi a sospettare che tra gli innumerevoli difetti e complessi ne spicchi uno particolarmente odioso e riconoscibile detto narcisismo, ebbene non potrei contraddirvi… salvo, poco dopo affermare che, a meno di irrilevanti differenze, un po’ tutti lo siamo (ovviamente non si allude a quello patologico). E meno male aggiungo! In fondo abbiamo volti diversi, diverse idee, differenti passioni, fedi opposte, distinti comportamenti; perché mai non dovremmo andarne fieri? Perché mai, a seconda delle circostanze, dovremmo negare ciò che effettivamente siamo, nascondere difetti, alterare pensieri, non avere a cuore e difendere ogni singola scelta? Altro che narcisismo! Credo fermamente che sia giusto e onesto nei confronti di chiunque con noi interagisca, che egli sappia esattamente chi si trova davanti: nel bene, nel male, nelle opposte concezioni del vivere. Questi mesi di “prigionia” e contemporanea totale serrata di ogni forma di servizio rivolto al proprio aspetto, da quelli più raffinati alla semplice tosatura, ha di fatto impedito ad ognuno di aver cura di sé. Probabilmente abbiamo dovuto fare i conti con ben altri pensieri e abbattimenti morali piuttosto che preoccuparci dell’aspetto fisico: capelli e barba, messa in piega e tintura per le signore, massaggi e creme idratanti, maschere e lozioni, unghie laccate ecc. Azzardo sostenere che tale straordinario stato di forzata trascuratezza potrebbe anche virare verso dimensioni di nuova individuale conoscenza e relativo desiderio di mostrarci per ciò che siamo o abbiamo scoperto di essere nel tempo del virus. Beninteso, lontani dalla sciatta trascuratezza, dalla pigra noncuranza. Così, piuttosto incredulo, ho ascoltato amiche decidere di lasciare imbiancare del tutto i loro capelli, si sono riconosciute, si sono piaciute e, sono certo, molto piaceranno; infatti la verità ha un suo fascino. Amici abituati a collezionare scarpe e camice e vario vestiario, hanno dimezzato il guardaroba, chiedendosi cosa se ne facessero di tanti pantaloni e giacche e cravatte. Medesimo discorso vale per barbe allungate e capelli abbandonati al loro ingarbugliato destino. Un modo come un altro per prendere atto di realtà diverse, diverse contingenze e gusti e mutato senso estetico. Improvviso amore per l’essenziale unito al distacco dal superfluo, allo snobbo dell’inutile. Bè, permettetemi di dire: niente male come insegnamento… assai virtuoso insegnamento aggiungerei. Oh, per carità, non vorrei filtrasse il messaggio che alla fine di questa incresciosa esperienza ci toccherà vedere aggirarsi per le strade solo zazzere scomposte, signore dalle bianche chiome, barbe da frate francescano e abiti dimessi. No! Può essere che un modo imprevisto per riconoscere chi siamo o chi potremmo essere o vogliamo essere, torni utile alla auspicata ripresa. Qualcosa di inimmaginabile sino a due mesi fa. Magari qualcuno di noi scoprirà un altro viso, un altro sguardo, un altro cuore. Infine un rinnovato concetto di sé e del senso della vita che, d’ora in poi, si appresta ad affrontare.


SPAZIO VIRUS • 60

THE END

Quando iniziai a scrivere questa rubrica, detta “Spazio Virus”, utilizzando la classica forma di diario giornaliero, nessuno di noi poteva immaginare quanto sarebbe durata la fase “uno”, quella, per intenderci, che limitava quasi al massimo la possibilità di uscita di casa e quindi di libero movimento, avvertendo, raccomandando, ordinando l’assoluta necessità di mantenere “distanze sociali” di almeno un metro/due l’uno dall’altro, nonché restare ben chiusi in casa. In pratica, da un giorno all’altro, un radicale cambio della vita individuale e sociale. Siamo alla fatidica data del 9 marzo 2020, la stessa che, nell’immaginario collettivo, spesso condizionato dai media, soprattutto tv, avrebbe segnato l’inizio di una nuova era, una sorta di nuovo mondo, una netta differenza del modo di vivere di ognuno di noi. Mi ero riproposto di concludere il diario quando la vita, non dico in modo totale e come prima dell’epidemia, avrebbe ridato chiari incoraggianti segni di risveglio. Sessanta giorni appunto. Questo di oggi, quindi, sarà l’ultima mia “fatica” (chissà perché usa utilizzare il termine “fatica” anche quando si fa qualcosa con il massimo del piacere), a conclusione di un percorso venato di afflizione, solitudine, amarezze, speranza, ribellione, sfiducia, emozione, rimpianti, metamorfosi, indignazione, dolcezza, amore, ricordi struggenti e nostalgiche passione. Bè, buttati lì così alla rinfusa questi elementi, si potrebbe dire essi medesimi sintesi dell’esistenza comune alla maggior parte delle persone. Questa mattina sono salito con passo lento e piuttosto incerto lungo la ripida strada, prima asfaltata, quindi di terra bianca e sassi che, insinuandosi tra folti boschi di castagno e ampie praterie, conduce all’apice delle colline bolognesi. Da lassù il panorama è entusiasmante. I profili armoniosi delle colline si alternano a scure macchie boschive, poco più il là biancheggiano le zolle argillose di vasti campi arati di fresco. Finalmente, giù nella valle, soffusi nella luce ancora precoce del sole, come raggi di stella marina, si allargano i rossi tetti della città. Sulla sinistra, oltre il primo roseo velo di orizzonte, spicca impassibile e sereno il giallo massiccio della basilica di S.Luca. L’aria limpidissima quasi frizzante, cielo di un azzurro trasparente, profumo di erba e stridulo gridio di fagiani. Ma oggi, il noto stupore che provo innanzi allo spettacolo offerto dalla natura no… non mi basta. Adesso sento il bisogno di qualcosa di diverso, qualcosa che normalmente mi lascia indifferente, passa inosservato, per non dire mi infastidisce: oggi ho impellente bisogno degli altri. Altre persone, altri incontri, altri sguardi, altri sorrisi, e quella strana affinità di azioni, pensieri, suggestioni e commozioni che da tempo sembravano smarriti, seppelliti per sempre sotto spesse stratificazioni di paura, prudenza, rispetto, senso del dovere, rassegnazione, sfiducia nel domani, diffidenza, pazienza, coraggio. Allora quasi con impeto ritorno sulla via principale, quella battuta dai podisti, dai ciclisti, dai solidi camminatori. Infatti passano, ognuno con la propria andatura, ognuno con i suoi anni sulle spalle e sulle articolazioni. Giovani e anziani, ragazze con tute attillate e signore munite di racchette da escursione. Io li guardo passare e sorrido, e loro mi sorridono, alzo il braccio a salutarli e loro mi salutano, dico ciao e loro rispondono ciao. Si sta trasferendo qualcosa fra noi, un sentimento nuovo, una fratellanza sconosciuta, una condivisione gioiosa di libertà riguadagnata, di spensieratezza che pensavamo perduta. Avrei voluto toccare le loro mani, abbracciare i loro corpi… un entusiasmo infantile smarrito nelle pieghe del tempo. Corrono in salita, alcuni con ammirabile ritmo da professionista, altri a passo d’uomo, ben distanziati, perlopiù solitari o con il cane al guinzaglio. A pochi giorni di distanza, mi chiedo ancora una volta se tutto ciò basti per rendermi felice. Ma sì, non importa la durata, conta capire se lo sto per essere, se lo sono, e per quanto questa felicità resterà al mio fianco: poco o tanto che sia, dovrà bastarmi. Così viene da chiedersi: è questo il bello della vita? Tutto qui? Tanti sogni, tante avventure, tanto amore, tradimenti, gelosie, fatiche, angustie e rabbia e poi? Un giorno di sole, una passeggiata tra gli alberi, l’incontro con sconosciuti, il sorriso tirato di un ragazzo stremato dalla salita? Ah quanto mi odio mentre, come niente fosse, scivolo sul mieloso terreno della retorica, affondo nella insopportabile melassa dei virtuosi atteggiamenti, sconfino nello stolto pregiudizio che la felicità possa trovarsi nella cose semplici, nella bontà dei rapporti umani, quelli veri, persino quelli di mero interesse. C’è il bene, c’è il male, inutile raccontarsela. Quelle persone con cui, senza nemmeno conoscerci, abbiamo condiviso un istante di sincera gaiezza, un’ora più tardi potrebbero insultarmi ad un semaforo, o ingannarmi nell’acquisto della spesa, o, molto più innocuamente, fregarsene di me, di quello che sono e desidero e credo, e mi accade giorno dopo giorno. Ma anche questo ragionamento è superfluo, nemmeno serve perderci un altro minuto per approfondirlo. Diciamo solo che mi è servito per equilibrare un minimo quell’inno alla gioia poco prima espresso con ingenua leggerezza. Ma tutto è cominciato da quel sentore profumato di fine emergenza virus. Su tutto il territorio i dati relativi ai contagi, ai ricoveri, ai decessi, sono in costante progressivo miglioramento. Il governo raccomanda ancora massima prudenza, rispetto delle regole, puntuale interpretazione dei protocolli delle varie professioni. Molte attività sul piede di guerra per il ritardo degli aiuti economici trionfalmente promessi, molte altre non riapriranno più i battenti. Nessuno si nasconde che i danni diretti e collaterali prodotti dall’epidemia saranno devastanti. Malgrado questo, la mente di tanti è già proiettata verso le vacanze, mare, monti, viaggi esotici, e, che Dio benedica il ministro dello sport, l’imminente ripresa del campionato di calcio. Per tutto il resto, scuola compresa, si va a settembre, quando avremo concluso le vacanze, si saranno sbiadite le abbronzature, festosamente assegnato lo scudetto. Presto rileggerò le pagine di questo diario, sono convinto che, in taluni casi, dovrò impegnarmi per riconoscere certi stati emotivi descritti con estrema enfatica precisione. Basta poco per dimenticare anche le peggiori sofferenze. Virus o non virus, la potente spinta vitale comune ad ogni essere vivente ha sempre la meglio anche sulle peggiori catastrofi. Tutti affermano che non ci scorderemo mai questi due mesi della nostra confinata esistenza, i disagi, le città deserte, le maschere sul volto… i trentamila morti. Per favore: questo diario non è obbligato al lieto fine come la maggior parte dei film Hollywoodiani, quindi vi prego, lasciatemelo dire! Non ci credo.


Ferdinando Balzarro nasce a Piacenza ma vive a Bologna. Laureato in scienze motorie, pluricampione e famoso maestro di Karate, nel 2000 stabilisce in Thailandia il record del mondo di paracadutismo acrobatico. Sempre nel 2000 inizia a coltivare la sua passione di scrittore pubblicando, con diverse case editrici, nel giro di quindici anni altrettanti romanzi e saggi di forte impatto emotivo. Ha terminato l’ultimo romanzo “Il sesto giorno l’uomo creò Dio”, previsto in uscita la prossima estate.
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