Agli amanti americani, o perlomeno newyorchesi, del lavoro di Piero della Francesca – amore sembra essere una parola migliore di ammirazione per descrivere quello che la gente prova verso questo artista – è stata data una rara opportunità nell’ultimo anno in due diversi momenti. Lo scorso inverno e la scorsa primavera la Frick Collection ha raccolto un piccolo numero di lavori del pittore italiano del quindicesimo secolo, la maggior parte provenienti dai musei americani. Erano soprattutto ritratti di santi da pale di altare, insieme alla Madonna col Bambino e quattro angeli, un forte (se non incandescente) dipinto proveniente dal Clark Art Institute, di Williamstown, Massachusetts. È il Piero “americano” che offre il sapore nitido di un aspetto della sua arte che lo ha reso una figura particolarmente affascinante per i pittori e gli scrittori dell’inizio del ventesimo secolo – nel momento in cui riunisce insieme un gran numero di personaggi in uno spazio ristretto – corposi ma tuttavia piatti, come le figure sovrapposte nelle carte che tieni in mano quando giochi.
Recentemente il Metropolitan Museum, in Piero della Francesca: Personal Encounters, ha raccolto alcune opere che in maniera casuale integrano la mostra della Frick, che ha esaltato il lato grave e ieratico dell’arte del pittore. Organizzato da Kieth Christiansen, uno dei curatori del Met, la mostra è stata la prima di sempre sui lavori devozionali di Piero. Sono dipinti di piccola dimensione creati per camere da letto o aree riservate della casa. In spirito questi ci portano nello stesso austero ed essenziale reame dei suoi quadri più pubblici. Però presentano in maniera più diretta e gradevole le qualità che rendono Piero una figura talmente speciale, anche per gli elevatissimi standard del quindicesimo secolo, quando così tanti artisti italiani e fiamminghi, che lavoravano da poco con la pittura ad olio, stavano cercando ognuno il suo modo personale di ritrarre il vero, corporeo mondo in cui vivevano.
Piero fu un artista ossessivamente metodico. Spese i suoi ultimi decenni – morì nel 1492, probabilmente intorno agli ottant’anni – non dipingendo ma, piuttosto, scrivendo trattati sulla geometria e la prospettiva. Il suo obbiettivo era quello di portare le leggi della prospettiva e della proporzione a sostenere le sue scene, e nel processo egli trasformò le figure e l’aspetto degli edifici, persino del vestiario, in così tante forme assolutamente autosufficienti. Tuttavia la sua militante metodicità si accompagnava ad uno straordinario sentimento per il personaggio e l’emozione. Nei loro volti composti e meravigliosi, i personaggi nei suoi quadri sono timidi, e persino distaccati, in un modo che pochi artisti hanno raggiunto. Le sue figure appaiono stranamente contemporanee nella loro sensualità, e non c’è nulla di superato nel modo in cui esse si incontrano e si giudicano l’un l’altra, o ci giudicano.
Due dei lavori del Met sono su San Girolamo, la figura del quarto secolo che tradusse la Bibbia dal greco e dall’ebraico in latino e che è tradizionalmente visto come un eremita, che vive in maniera ascetica nella campagna. Il San Girolamo penitente, dalla Gemäldegalerie di Berlino, ha perso una notevole quantità di colore nei secoli. Ma il paesaggio sullo sfondo, con la sua ritmica raccolta di alberi, il suo piccolo fiume tortuoso ben disposto, e il riflesso degli alberi sulla superficie riflettente del fiume, forma, in modo affascinante, quella che può essere chiamata la nozione di parco di un matematico.