Abbiamo voluto riprendere il post di Garry Wills pubblicato sul blog della ‘New York Review of Books’ dedicato alla strage di Sandy Hook perché c’era qualcosa che volevamo capire un po’ meglio. Qualcosa che non facesse semplicemente riferimento alla malattia del ragazzino o alla diffusione sconsiderata delle armi. Ciò che è nato come [...]
Abbiamo voluto riprendere il post di Garry Wills pubblicato sul blog della ‘New York Review of Books’ dedicato alla strage di Sandy Hook perché c’era qualcosa che volevamo capire un po’ meglio. Qualcosa che non facesse semplicemente riferimento alla malattia del ragazzino o alla diffusione sconsiderata delle armi. Ciò che è nato come discussione dopo la strage è stato il dibattito sulla libertà di diffusione delle armi e una striminzita considerazione sullo stato di malattia dell’esecutore. Tutto risolto. Lui è malato, le armi sono troppo diffuse. Abbiamo quindi aggiunto una biografia rintracciabile sulla rete (solo ciò potevamo fare, oltre a supporre scenari) del ragazzino. Abbiamo cercato di ricostruire anche quella dei vari componenti della famiglia. A parte qualche notizia sulla madre non si trova nulla né sul fratello né sul padre. Vivevano in altre città d’altra parte. Da quando il ragazzino aveva undici anni il padre viveva in un’altra città a causa della separazione dei genitori. Il ragazzino nel compiere la strage parte con quattro colpi alla madre che dorme. Poi si reca alla scuola dove la madre svolge attività di volontariato (quest’ultimo dato non è ancora stato confermato) e uccide molti bambini che quella scuola frequentano, che presumibilmente ricevevano le attenzioni della madre come professionista dell’educazione. Nella rubrica ‘Conflitto d’Interessi’ del settembre 2012, avevo fatto cenno a come la letteratura e il cinema americano pongano da decenni al centro della loro elaborazione la figura del padre senza che ciò venga notato come fenomeno. Non se ne parla se non da parte degli studiosi che vengono magari citati (come farò fra poco più sotto) nei libri di Foster Wallace mettiamo, ma che non hanno alcun ascolto a livello della cultura televisiva. Che è poi, sempre secondo Wallace, la cultura tout court. Non se ne può parlare. Non azzardarti a parlare di quella stronzata del padre per favore! Bene, il padre viveva lontano, in un’altra città. Probabilmente si era costruito un’altra famiglia (questa si cambia come l’auto del resto, più dell’auto, vista la crisi che attraversa il settore, e decisamente la crisi della famiglia non è proprio in crisi, anzi diremmo che la crisi della famiglia sta vivendo un momento di boom irripetibile e inedito nella storia) e vedeva il figlio, i figli, molto poco. E noi facciamo due chiacchiere sulle armi per favore, dai, distraiamoci un po’. Vuoi venire a romperci le scatole nell’unico posto in cui abbiamo ancora potere di esercitare pienamente la nostra libertà? Distruggere la famiglia, dichiarare che è finito l’amore e passare ad altro, è l’unica cosa che possiamo fare senza che ci rompa le scatole nessuno. Neppure i giudici, anzi loro sono proprio quelli che più ci supportano nel conservare questa nostra ultima, fondamentale, costituzionale libertà. E tu vuoi mettere in discussione anche quella. No, no, non voglio mettere in discussione nulla, ma non è completezza di rendiconto parlare solo della diffusione delle armi in relazione a questa vicenda. Questa cosa non so perché, vi giuro che non so perché, mi fa venire in mente quante stragi all’interno della famiglia avvengano in Italia da almeno vent’anni e forse oltre. Se non mi è stato riferito male gli Stai Uniti e l’Italia sono i due paesi in cui sono più diffuse le stragi all’interno della famiglia. In genere è il padre che, in prossimità di una separazione, uccide moglie e figli. Un cretino in sostanza, ma quanta gente veramente intelligente incontrate nella vostra vita. Veramente così tanta? In occasione di queste stragi nostrane, parte la geremiade pseudo-femminista sulla violenza sulle donne. Una famosa regista esprime la sua preoccupazione. Poi si fa finanziare un bel film (sono oltre trenta senza che mai abbia incassato almeno i soldi spesi e continuano a darglieli – misteri del privilegio che si annida ovunque, a destra e a sinistra, come in questo caso) con i soldi dello stato nelle sue varie diramazioni (ministeriali e televisive). Che nessuno vedrà, ma non è ciò che conta, ciò che conta è che la sua opera perpetui l’imperativo dominante. L’ha fatto, bene, andiamo avanti. Ho avuto modo di vedere molto da vicino la società americana, ne ho visto il superficiale cambiamento nel corso di trent’anni. La visione superficiale, non solo a mio avviso (un famoso filosofo si è espresso su questo punto), rimanda il quadro più veritiero di una società. Quando le famiglie americane si separano, facendo valere il principio di cui sopra riguardo all’ultima libertà rimasta ai contraenti matrimonio (speculare alla totale mancanza di libertà, riguardo alla stessa materia, dei loro figli conviventi – come se non vivessero all’interno della stessa situazione o quantomeno come se non avessero diritto di parola), il padre si allontana dalla famiglia in modo radicale, cambia città, vede i figli a Natale e nelle vacanze estive. Non esiste la litania italiana del ‘mio week end’ che abbiamo cercato di evocare in un numero passato della rivista con una foto titolata “Il padre in attesa della telefonata del figlio nel sabato mattina del ‘suo’ week end’”. Questi padri americani proprio spariscono. Quando la separazione non avviene, nella classe media e piccolo borghese (i poveri e i ricchi attuano procedure diverse che magari vedremo in altra sede) il padre sta in casa come un ospite formalmente molto rispettato ma sostanzialmente senza alcun potere di dire apertamente la sua opinione. Ho in mente una situazione in cui mi sono trovato spesso in cui la stessa postura dei due interpreti i ruoli suddetti denotava la padronanza di sé della moglie e la preoccupazione a non mostrarsi ‘scomposto’ del marito. Nel senso che lei aveva assunto le posture dell’uomo e lui quelle della donna, com’erano da tradizione ovviamente. Dal libro di Wallace che sto leggendo in questi giorni (Tennis, tv, trigonometria, tornado…) riporto una citazione dal libro di Miller Deride and Conquer:
ignoravano (si riferisce ai western e alle sit-com degli anni sessanta) la crescente impotenza dei maschi piccolo borghesi con le loro idee di autorità paterna e individualismo virile. E tuttavia nel periodo in cui queste sit-com venivano prodotte, il mondo della piccola impresa [le cui virtù erano quelle, tipiche dei papà dei telefilm, di padronanza di sé, probità, fermezza di giudizio] erano state… soppiantate da ciò che C. Wright Mills chiamava ‘il demiurgo-manager’ e le virtù incarnate dal Padre erano di fatto sorpassate.
Più film (American Life, American Beauty, L’Albero Della Vita, Magnolia, 21 Grammi, Nella Valle di Elah, Into The Wild e tanti altri) e più romanzi (La Strada, Underworld, Cosmopolis, ma anche Manhattan Transfer e tanti altri di nuovo) hanno messo in luce la follia della società americana e hanno spesso svelato la connessione di questa follia con questo esercizio di libertà nella distruzione della famiglia (l’emendamento non scritto). Ma sempre queste opere vengono prese come iperboli, come opere d’arte che parlano del disagio sostanzialmente di chi le ha scritte. Non se ne rileva il discorso fondante e non lo si vuole mettere in evidenza. Ma l’arte, quando è grande, non parla mai del proprio autore in quanto singolo. Gli si rivolta addirittura contro proprio perché parla di te. Che non hai spesso alcuna voglia di ascoltare.