Passioni è un programma articolato in cicli monografici della durata variabile dalle 2 alle 10 puntate. Ogni ciclo propone una narrazione e una esplorazione condotta in prima persona dal protagonista o dai protagonisti intorno a quella “passione” che è al centro del tema scelto e si avvale di interviste, archivio sonoro, musiche. “Passioni” non vuole offrire un approccio giornalistico o didascalico ma piuttosto l’esperienza viva dei protagonisti, la loro storia, le loro emozioni.
A cura di Cettina Flaccavento
regia di Ornella Bellucci
Donne del Novecento. Colette Rosselli e Lisetta Carmi.
I° puntata. Colette Rosselli.
Laura Laurenzi. Quanto c’era di Colette Rosselli in Donna Letizia? Amava ripetere: «Donna Letizia è una maschera che mi sono messa per anni, ma che non mi appartiene neppure tanto», spiegava, «io sono tutt’altro che perfetta: sono distratta, pressapochista, scendo sulla terra solo quando c’è qualcosa che davvero mi colpisce».
Flavia Piccinni. Scriveva così sulle pagine di ‘Repubblica’ del 2007 Laura Laurenzi, che fu una cara amica di Colette, per tracciare un profilo perfetto capace di raccontarne tanto l’animo privato quanto quello pubblico; tanto l’amore dell’arte per la pittura, che l’aveva fatta esordire come illustratrice, quanto l’esperienza dei salotti e del bon ton, che l’avevano resa nel dopo guerra, insieme ad Irene Brin, maestra di educazione per migliaia di italiani.
Laura Laurenzi. Erano gli anni Cinquanta, quelli del boom, dell’improvviso benessere, quando si passò bruscamente dal colletto di lapin alla mantellina di visone, come amava ripetere lei, dal filobus all’utilitaria, dal tinello finto-provenzale al salotto finto-inglese, dal Ferragosto in pensioncina alla crociera mediterranea, e nuovi dilemmi attanagliavano i ceti emergenti. Non semplici quesiti di etichetta ma modelli di comportamento, scelte di eleganza d’ animo, codici dello stare insieme civilmente, con rispetto reciproco. Come apparecchiare il tè, come rivolgersi a un arcivescovo o a un principe ereditario, come utilizzare le forchette da ostriche, ma anche come lenire la solitudine, come capire e come crescere i propri figli, come non fare scorrettezze e offese gratuite. Non solo i guanti galcés di antilope finissima o le mezzelune da insalata, ma anche il rapporto con la suocera, le gaffes da evitare con scrupolo, i passi falsi che ti possono azzoppare. Cominciò a dispensare quei consigli di stile che un giorno sarebbero confluiti, rielaborati, nel Saper vivere nel lontano 1953, prima su ‘Grazia’ e più tardi su ‘Gente’. Riceveva centinaia di lettere alla settimana: quesiti di galateo, ma spesso anche problemi umani. Non soltanto da donne, ma anche da uomini (le arrivarono pure varie proposte di matrimonio, con tanto di foto del candidato, il che la divertiva moltissimo). Insegnare a saper vivere: un’impresa. «Per tutti ho cercato di trovare la parola giusta, e a molti piaceva proprio quel mio cocktail di humour e serietà, quella mia ironia talvolta pungente ma molto più spesso benevola, di fioretto e mai di spada, così diversa dall’amaro sarcasmo degli italiani», mi raccontò molti anni dopo, seduta nel suo salotto affacciato su Piazza Navona, nella casa che divideva col marito Indro Montanelli, quando – era l’ ottobre dell’ 84 – decise che Donna Letizia non sarebbe esistita più. Basta! Un’ epoca era finita per sempre. Ero andata a intervistarla per ‘La Repubblica’. Fu allora, accarezzando il magnifico e scontroso gatto persiano Bel Ami, che mi raccontò come nacque quel suo pseudonimo così fortunato: «In quel periodo nella ‘Settimana Incom’ Irene Brin teneva una rubrica di bon ton molto sofisticata, dai timbri letterari, estremamente raffinati, un po’ proustiani, firmata Contessa Clara. Arnoldo Mondadori mi propose di scrivere qualcosa del genere in cui si insegnassero veramente le buone maniere. Era l’epoca dei noms de plume blasonati e raggelanti, provinciali e tutti fasulli, Duchessa di Bedford, Lady Troubridge… Mondadori voleva darmi un nome del tipo marchesa non so come; io dissi che di titoli nobiliari non volevo saperne». Nacque così Donna Letizia e nacquero i primi fondamenti del Saper vivere. Uscì come manuale, ed ebbe immenso successo, nel 1960, con illustrazioni, spiritosissime, dell’autrice, che sapeva disegnare con lo stesso garbo intuitivo, lo stesso brio e lo stesso stile con cui scriveva, e aveva pubblicato suoi schizzi su riviste estremamente raffinate come ‘Vogue’, ‘Harper’s Bazaar’, ‘New Yorker’. In Italia basta andarsi a guardare con quale grazia e con quale ironia illustrò Il Diario della signorina Snob scritto da Franca Valeri. La stessa Colette – che Federico Fellini, affettuosamente, chiamava Colettona, e cui, proprio negli anni ruggenti di quella fortunata rubrica, voleva affidare una parte ne La dolce vita – si poneva il problema, a ogni fortunata ristampa. Aggiornarlo? Modificarlo? Lasciarlo così com’è? Riscriverlo da capo a fondo? Tutto è cambiato così velocemente, diceva, si è come capovolto: «In trent’anni mi sono passati davanti agli occhi vari periodi storici». Sì, tutto è cambiato. Tranne una cosa, ripeteva Colette: la solitudine di fondo, l’ ansia, l’ angoscia, il senso di incertezza, la paura di sbagliare. E quando sono in troppi a voler dare lezioni, meglio fare un passo indietro. Nel 1984, proprio nella stagione in cui le librerie furono sommerse e inflazionate da nuovi manuali di buone maniere, Colette Rosselli, che su ‘Gente’ vide ridimensionare gli spazi della sua rubrica a favore di una pagina fissa di lettere affidata a Raffaella Carrà, scelse di abbandonare la sua trincea. Donna Letizia è morta e sepolta, ripeteva, non esiste più. E invece è vivissima, e ci ha raccontato giorno dopo giorno come eravamo e soprattutto come avremmo voluto, o dovuto essere, come siamo cambiati e come si è evoluto, o involuto, il nostro Paese.
Flavia Piccinni. Colette Rosselli è stata una protagonista del suo tempo, eppure è stata inspiegabilmente prima messa in un angolo della memoria e della storia, quindi dimenticata. Eppure ognuno di noi ha in casa almeno un suo libro, poco importa che si tratti de La signorina Snob di Franca Valeri o de Il Saper vivere di cui invece fu autrice. La sua storia ci riporta indietro nel tempo, in un’Italia e in una Roma che, come ci racconta la scrittrice Dacia Maraini, erano molto diverse da oggi.
Dacia Maraini. Roma all’epoca era molto più piccola, c’erano poche macchine, poco traffico e certi locali, come per esempio il Caffé Rosati, erano luoghi di incontro degli artisti. Tutto allora era molto più povero, molto più semplice di oggi, lì si poteva incontrare casualmente Fellini, Calvino, Sciascia, Pasolini. Era una Roma che si poteva girare a piedi, dove al ristorante si poteva pagare a rate, o si pagava poco, o dove gli artisti pagavano dando in cambio un quadro. Era una Roma che non esiste più. Lo stile della città è cambiato, e i pittori, gli scrittori, gli artisti in generale, non si vedono più. La città ormai è chiusa. Non ci sono più dei luoghi in cui ci si incontra, la piazza che era il luogo d’incontro nei piccoli paesi, una volta c’era anche a Roma. Una di queste era Piazza del Popolo. Ma non era la piazza di oggi, snob, riservata ai ricchi e ai turisti, era un luogo molto provinciale, in cui fino agli anni ’50 si potevano vedere passare le pecore che andavano a pascolare nei prati vicino alla piazza. Fra i ricchi all’epoca c’era Luisa Spagnoli, una mecenate che aveva una bellissima casa in cui invitava gli artisti: pittori, scultori, attori, giornalisti, e spesso si andava da lei senza essere nemmeno essere invitati, perché aveva una sorta di mensa aperta a tutti. È stata molto generosa, perché molti artisti facevano la fame e sapevano che da lei si poteva mangiare qualcosa o chiacchierare con gli amici, era un luogo di ritrovo aperto a tutti. Qui incontrai Donna Letizia, una donna bellissima, molto alta, molto elegante e una conversatrice molto piacevole. Era molto spiritosa, con un umorismo a volte un po’ tagliente, ma era una persona molto gentile.
Flavia Piccinni. Colette, alta e magrissima, elegante in modo sublime si fece subito notare, lei che vantava radici aristocratiche in Gran Bretagna, si presentava come un’apparizione e sapeva distinguersi sempre, con classe e con eleganza, fin dal primo sguardo. Così la ricorda la critica d’arte Lorenza Trucchi, oggi novantenne, che fu sua amica.
Lorenza Trucchi. La incontrai per la prima volta a Cortina D’Ampezzo negli anni ’50. E il fatto che dopo tanti anni ci si possa ricordare così nitidamente una persona è la prova della sua forte personalità, anche fisica. Eravamo nella hall di un albergo, ed entrò una signora con una mantella tirolese lunga fino ai piedi che teneva per mano due bambine, la più piccola delle due era a sua volta tenuta per mano da una governante in divisa. Colette era una figura insolita, molto alta, mi fece subito una grande impressione. Ricordo che domandai chi fosse quella signora, e qualcuno mi disse che era una scrittrice, non mi dissero che era la moglie di Montanelli. Questa forte personalità corrispondeva anche a un carattere considerevole, era un’amica tenerissima e affidabile, anche se tra me e lei c’era una certa differenza di età. In quel periodo aveva quasi del tutto smesso di scrivere per dedicarsi principalmente all’attività di pittrice. D’altra parte aveva iniziato la sua carriera come disegnatrice di libri per bambini, ed era una disegnatrice bravissima, dotata di un grande senso dello humor, e creava questi piccoli personaggi estremamente piacevoli e divertenti.
Flavia Piccinni. Ma chi era veramente Colette Rosselli?
Lorenza Trucchi. La madre era di origine inglese e il padre napoletano. Colette si era sposata in prime nozze con Raffaello Rosselli, cugino di Carlo e Nello, perseguitati dal fascismo. Per questo motivo il marito di Colette dovette lasciare l’Italia e trasferirsi in Argentina e dal primo marito lei ebbe la sua unica figlia, morta pochi anni fa. Dopo la guerra Colette conobbe Indro Montanelli. La storia d’amore tra di loro fu una vera e propria passione. Quando Indro e Colette si conobbero lei era ancora sposata e rimasero in questa situazione per molti anni, fino a quando non arrivò il divorzio in Italia e lui la sposò. Ma quando si sposarono le cose tra di loro erano un po’ cambiate, come spesso accade, lui si trasferì a Milano per lavorare per ‘Il Corriere della Sera’ e lì successivamente fondò ‘Il Giornale’, ma si amarono comunque moltissimo, lui le telefonava sempre, anche due volte al giorno.
In quel periodo potevi incontrare gente straordinaria, facendo due passi in Piazza del Popolo, andando nei due soliti caffè si potevano incontrare tutti i giorni da una parte Antonioni, Fellini, dall’altra Turcato, Marino Mazzacurati. Insomma, la gente che oggi è diventata non solo celebre, ma addirittura mitica, all’epoca era “quotidiana”.
Flavia Piccinni. Di questa atmosfera ne sa qualcosa anche Dacia Maraini.
Dacia Maraini. In quegli anni in Italia c’erano molte forze reazionarie. Ricordo che una volta stavo uscendo da un teatro in compagnia di Pier Paolo Pasolini e ci imbattemmo in un gruppo che iniziò a urlargli contro: «Paola! Paola!». Pasolini in quegli anni fu denunciato ottanta volte per oscenità, offese alla religione, e quant’altro, ed erano denunce che partivano da associazioni cattoliche, perché non c’era oggettivamente una vera e propria censura da parte dello Stato. Ma ogni volta che questi gruppi cattolici denunciavano Pasolini, la magistratura si metteva in moto e lui era costretto a difendersi in tribunale da queste accuse. Tutto ciò oggi è scomparso.
Da una lettera a Donna Letizia. 1976. «Cara Donna Letizia, cosa ne pensa di un marito che propone alla moglie di invitare nel letto coniugale un’amica da poco abbandonata dal fidanzato, sostenendo che con questa iniziativa ognuno darebbe il meglio di sé: prova di amicizia da parte della moglie, larghezza di vedute da parte del marito, gratitudine da parte dell’amica?». Dina N. Legnano
«Presto un fazzoletto: tante eccelse virtù commuovono!»
Flavia Piccinni. Quando penso a Colette mi vengono alla mente tre immagini in sequenza: il ritratto in bianco e nero di una donna bellissima con i capelli color della cenere, che farebbe invidia a chiunque; lo sguardo di Indro Montanelli, che sembra fissare allo stesso tempo qualcosa di tremendo e di meraviglioso; il libro di Donna Letizia che mia nonna teneva sul comodino e che ogni tanto apriva a caso, esattamente come faceva con il galateo di contessa Clara, del quale mi leggeva una pagina o due dopo cena, quando restavamo in veranda a guardare il mare.
Da una lettera a Donna Letizia. 1977. «Cara Donna Letizia, sono sposata da nove anni con un uomo che mi ha fatto capire di avermi scelto perché promettevo di diventare una buona madre, ma non mi c’è voluto molto per capire che per madre voleva dire riproduttrice. Infatti è venuto fuori che un suo zio, ormai prossimo agli ottanta, lascerà a lui la sua ingente sostanza a patto che abbia un figlio maschio. In cinque anni di matrimonio ho messo al mondo cinque figlie, e naturalmente mio marito intende insistere finché non venga l’erede. A parte il fatto che queste maternità ripetute hanno esaurito le mie riserve di amore materno, c’è una cosa che mi rende ancora più reticente al punto da aver imposto camere separate e non sto a dirle con quante scenate da parte di mio marito. E le chiedo ora di comprendermi. Le nostre cinque bambine, benché care e buone, son tutte inspiegabilmente assai bruttine, né io né mio marito lo siamo, e somigliantissime tra di loro, il pensiero di continuare a mettere al mondo delle creature poco attraenti mi scoraggia, e mi preoccupo per il loro avvenire. Ed eccomi alla ragione della mia lettera: mio marito vuole a tutti i costi un maschio, e prima o poi sfonderà la porta perché ciò accada, mi ha promesso che quando ciò accadrà mi lascerà finalmente in pace. Ora chiedo a lei due cose, primo: sarebbe molto immorale se questo tentativo io lo facessi anziché che con mio marito, che mi dà solo femmine e bruttine per giunta, con un suo cugino simpatico, di bell’aspetto e inoltre padre di tre maschietti? Secondo: dovrei metterne al corrente mio marito, chiedergliene il consenso, o agire a sua insaputa, ricorrendo a tutti gli accorgimenti necessari? Le sarei moto grata di darmi il suo parere, rinunciando alla tentazione di una battuta spiritosa, come le è solito fare, e come questa lettera potrebbe suggerirle. Vorrei, insomma, una risposta seria». Giovanna, Lecce.
«Serissima dunque: le cose che lei mi scrive non si fanno, ma quando si fanno, non si dicono».
Flavia Piccinni. C’erano donne e uomini che compravano il giornale solo per leggere la rubrica di Donna Letizia, e c’erano donne e uomini che affollavano le librerie e compravano i suoi libri, come ricorda Colette negli anni ’80, in un’intervista rilasciata a Rai1. Quel giorno indossava una splendida giacca gialla, e aveva uno sguardo limpido, quasi trasparente, un’aria distante ed elegantissima.
Giornalista. Colette Rosselli, giornalista e scrittrice, autrice di un libro che è andato al di là di qualsiasi aspettativa, ma non troppo, e che si intitola appunto Ma non troppo. Il diario di una donna al centro di grandi eventi, del mondo dello spettacolo, dell’editoria, della vita culturale romana e anche presso le corti d’Europa. Perché questo libro ha avuto così tanto successo?
Colette Rosselli. Innanzitutto non sono mai stata al centro. Lo dico anche nel libro, io sono sempre stata di passaggio, defilé, non mi sono mai fermata da nessuna parte, un po’ per pigrizia e un po’ perché non mi piace stare ferma, se mi fossi fermata non avrei potuto scrivere questo libro perché ne sarei stata condizionata. Per quanto riguarda il successo che ha avuto il libro sinceramente non me lo aspettavo. È stato Mario Spanno, della casa editrice Longanesi, che mi ha quasi obbligata a farlo, perché incontrandoci in certe occasioni lui si divertiva, bontà sua, ad ascoltare certi episodi che raccontavo, e quando gli dissi che da molti anni tenevo un diario non mi ha più dato pace. Anche per quanto riguarda il titolo del libro, Ma non troppo, io non c’entro nulla. È un titolo ideato da Mario Spanno, io avevo pensato ad un altro titolo, Aiuole scompigliate che lui ha trovato, giustamente, troppo sofisticato, troppo sottile, e allora ha scelto come titolo Ma non troppo.
Flavia Piccinni. Colette aveva un’eleganza nei modi che non smetteva di sorprendere, perché la sua educazione, le sue attenzioni non erano mai forzate, ma naturalissime. L’ultimo ricordo lo affidiamo alla cara amica di una vita, Lorenza Trucchi.
Lorenza Trucchi. Quando Colette organizzò una mostra a Milano, Indro Montanelli disse che non si doveva parlare di lei sul suo giornale, per ovvi motivi. Io invece mandai alla redazione un articolo in cui parlavo della mostra e loro lo pubblicarono. Colette mi mandò allora una sciarpa di Hermes con un biglietto che diceva «A Lorenza che giustamente trasgredisce».
Quando Colette morì mi trovavo a casa sua. Lei era già composta in camera da letto, c’era pochissima gente in casa, io mi trovavo seduta sul divano con Indro Montanelli che mi teneva la mano. Ricordo che a un certo punto mi disse, abbozzando un sorriso: «Era tanto, tanto severa!».
II° puntata. Lisetta Carmi.
Flavia Piccinni. Esistono donne che vivono due vite, altre tre, pochissime quattro. Invece Lisetta Carmi, genovese, pianista, fotografa, seguace di Babaji[1], studiosa e iniziata al silenzio, novant’anni, un grande sorriso sul volto che risplende, ha cinque vite alle spalle. Ha deciso di vivere in quella Valle d’Itria dove anch’io sono cresciuta, e passa le sue giornate a imparare in un appartamento a Cisternino che si trova in cima a una lunghissima e ripidissima rampa di scale. Alle salite e alle discese, al vento che ti travolge e spira, devasta e trasforma, Lisetta è abituata, fa parte di lei, perché Lisetta ha la forma del cambiamento, fin dall’incontro con Babaji.
Lisetta Carmi. Le cinque vite mi sono state predette dal mio maestro, Babaji. In India Babaji mi fece un disegno con cinque donne: una prima donna, una seconda donna, una terza donna, una quarta donna, un fior di loto e una quinta donna di cui era disegnata solo la testa. Sullo sfondo si vedevano le montagne dell’Himalaya. Facendomelo vedere, Babaji mi spiegò: «Janki Rani», il nome indiano che mi aveva dato il mio maestro, «tu avrai cinque vite».
La mia prima vita è stata la musica. Io sono ebrea, ho iniziato a studiare pianoforte a dieci anni, e nel 1938, quando avevo tredici anni, in Italia arrivarono le Leggi Razziali, e io non potei più frequentare la scuola. I miei fratelli maggiori, Eugenio e Marcello, partirono subito per la Svizzera, io rimasi a Genova con la mia famiglia e continuai a studiare pianoforte. Iniziai poi a fare concerti. In quel periodo ho avuto molti allievi, mi piaceva moltissimo insegnare, perché sono convinta che la musica sia una formazione totale, incredibile. Se la musica viene studiata bene crea una struttura interiore potente, sia sul piano della creatività, che sul piano della forma e della sensibilità.
Fino a trentacinque anni continuai a fare concerti, quando nel 1960 a Genova si tenne un comizio di Giorgio Almirante. Io naturalmente volevo andare a protestare con i portuali, ma il mio maestro di pianoforte, ottimo musicista e maestro, severissimo, mi disse: «Tu non puoi andare a protestare con i portuali, perché se ti dovessero rompere una mano non potrai più suonare». Allora io gli risposi: «Se le mie mani sono più importanti del resto dell’umanità io smetto di suonare il pianoforte», per me non fu un grande sacrificio, perché non mi piaceva fare concerti, mi piaceva moltissimo suonare e soprattutto insegnare, ma non fare concerti. Così andai in piazza a protestare con i portuali e smisi di suonare e di fare concerti. Mio padre aveva una grande convinzione, che chi non lavora non mangia. Gli dissi che ero disposta a fare qualunque tipo di lavoro, e in quel periodo il mio amico Leo Levi, grande etnomusicologo italiano che viveva in Israele, andava spesso in Puglia, a San Nicandro Garganico, a registrare canti ebraici di un piccolo gruppo di persone che vivevano in questo piccolo paese seguendo gli insegnamenti di Donato Manduzio[2]. Decisi allora di raggiungere Leo in Puglia, e visto che a casa nostra si usava molto fotografare, partii per San Nicandro Garganico con una piccola macchina fotografica e nove rullini. Durante il viaggio consumai tutti e nove i rullini. Io non avevo mai fatto una fotografia, pensavo che non ne sarei mai stata in grado. Dopo il viaggio, tornata a Genova, una volta stampati i rullini, diverse persone mi fecero moltissimi complimenti sulle foto, dicendo che erano bellissime. Allora mi sono detta, se sono brava, se i primi scatti che ho fatto in vita mia sono belli, se sono capace di vedere il mondo con occhi speciali, invece di fare la balia o altri tipi di lavoro vuol dire che farò la fotografa. Iniziai a studiare molto seriamente, perché avevo passato trentacinque anni della mia vita a studiare pianoforte con un maestro molto bravo e molto severo, che mi aveva insegnato a trattare il pianoforte come se fosse una persona. Comprai il libro di Andreas Feininger, Il libro della fotografia. Grazie a questo libro appresi che bisogna usare una particolare macchina fotografica in base al proprio carattere. Ho un carattere molto immediato, vedo e capisco, vedo e faccio, e allora decisi di comprare una Leica, una 35 mm, perché è una macchina veloce, immediata. Mio padre, che era una persona molto severa ma anche molto intelligente, quando vide che mi applicavo con così tanto impegno alla fotografia, che facevo dei piccoli reportage con una macchinetta amatoriale, mi regalò una Leica e tre obbiettivi. Così ho cominciato a realizzare dei servizi per conto mio, scegliendo soggetti semplici su cui cercavo di creare un piccolo reportage composto da dieci fotografie. Poi mio fratello Eugenio mi presentò al Teatro Duse, che all’epoca era il teatro di prosa più importante di Genova, e lì lavorai per tre anni come fotografa di scena, facendo amicizia con i grandi registri teatrali di quel periodo come Carlo Cartucci, Lele Luzzati, Luigi Squarzina. È stata una scuola immensa per me, perché prima dello spettacolo si dovevano fare alla sera le foto della prova generale, la notte si stampavano cento foto, la mattina si consegnavano ai giornali e si attaccavano alla bacheca del teatro, era un lavoro molto particolare. Dopo tre anni però decisi che era arrivato il momento per me di girare il mondo, così mi licenziai dal Teatro Duse e iniziai a viaggiare, sempre da sola. Ho sempre amato molto i poveri e molto poco i ricchi, e quindi ho girato il mondo da sola per realizzare servizi. In Venezuela, in Messico, in Marocco, cercando sempre di trovare la verità di questi popoli poveri che cercavano di sopravvivere con la loro intelligenza e la loro sensibilità. Sono stata diverse volte in Israele, prima come musicista e poi come fotografa, realizzando sei servizi sui kibbutz e sui campi profughi palestinesi. Poi realizzai il libro sui travestiti. Ero andata a vivere nel centro storico di Genova e avevo instaurato un rapporto molto forte con questa realtà particolare, il cui risultato fu questo libro che ora è introvabile.
Flavi Piccinni. Un libro che all’epoca destò scalpore e che nessuna libreria aveva il coraggio di esporre. Era un libro di cui non si doveva sapere l’esistenza, considerato scandaloso e inappropriato. L’esperta di fotografia Giovanna Calvenzi, che ha dato alla vita di Lisetta la forma di un libro nel meraviglioso racconto Le cinque vite di Lisetta Carmi, pubblicato nel 2013 da Bruno Mondadori, lo ricorda così:
Giovanna Calvenzi. Il libro fu un insuccesso clamoroso, perché il tema per quel periodo, l’inizio degli anni ’70, era un tema molto difficile. Tutti ne parlavano, erano anni di presunte libertà sessuali, eppure i librai non avevano il coraggio di esporlo, quindi lo tenevano magari sotto il bancone ma non lo mettevano in vetrina, e così se ne vendettero pochissime copie. La tipografia che stampò il libro si ritrovò con tremila copie invendute e chiamò Lisetta per dirle che sarebbero state mandate al macero, e fu Barbara Alberti a salvarle, comprandole tutte. Teneva le copie in casa e le regalava agli amici che andavano a trovarla. Riguardo al lavoro sui travesti, poi la fotografia che trovo più commovente, è una foto che Lisetta scattò nel Capodanno del 1968 o del 1969, quando per la prima volta si recò a casa di un gruppo di travestiti. In questa foto si vede un gruppo di ragazze con delle parrucche bionde che ballano, che parlano tra di loro, che tengono in mano un bicchiere di spumante all’interno di un appartamento semplice, molto modesto, in cui si percepisce il tentativo di ricreare un ambiente ordinario, piccolo borghese che trovo assolutamente toccante.
Le foto sui travestiti sono fotografie che vanno viste nella loro globalità, è la lunga storia dei travestiti che è importante più che la singola foto. C’è invece un suo ritratto di Ezra Pound che viceversa ha delle caratteristiche di atemporalità e quasi di eternità. È il ritratto di un Ezra Pound anziano e malato, che viveva vicino a Rapallo e che lei fotografò con pochissimi scatti, una ventina in totale, scegliendone undici. Tra questi scatti c’è appunto un ritratto assolutamente magistrale, nel quale si vedono la solitudine, la disperazione, la follia, l’intelligenza, c’è tutto di Ezra Pound. Lo sfondo è nero, un signore guarda in macchina, con i capelli arruffati, con la barba lunga e con questo sguardo aggressivo e timoroso allo stesso tempo, un’immagine potentissima. L’immagine che mi commuove di più.
Flavia Piccinni. Lisetta firma centinaia di reportage, alcuni dai suoi viaggi intorno al mondo e altri dall’Italia. L’India diventa la sua meta preferita, dove si reca spesso e dove incontra Babaji.
Lisetta Carmi. Nel 1976 fui chiamata da Babaji. Io non avevo nessuna intenzione di trovare un guru, mi recavo in India già da molti anni, ma non cercavo un maestro. Durante un viaggio in India conobbi una ragazza di nome Gora Devi, che era già una discepola di Babaji, con cui feci un viaggio di quattro giorni a Delhi, io poi tornai in Italia alla mia vita normale, questo succedeva nel 1974. Due anni dopo Babaji mandò questa ragazza, Gora Devi, a meditare in una capanna sotto l’Himalaya, mentre lei si trovava in questa capanna, Babaji le mandò una visione di me che meditavo lì insieme a lei. Lei mi scrisse una lettera in cui mi parlava di questa visione e io allora partii immediatamente. Arrivai in un piccolo paese a nord dell’India, con l’intenzione di chiedere a un maestro yoga come potevo raggiungere questa ragazza, mi recai alla sua scuola ma il maestro non c’era. Quando uscii dalla scuola vidi una signora occidentale vestita da indiana, mi avvicinai e le chiesi se conosceva Gora Devi, lei mi disse di conoscerla benissimo visto che era anche lei una discepola di Babaji, e mi spiegò come arrivare alla capanna in cui meditava la ragazza. Prima di lasciarmi mi chiese come mi chiamavo, glielo dissi e lei si segnò il mio nome su un foglietto di carta. Raggiunsi Gora Devi nella capanna sotto l’Himalaya, e rimasi con lei per nove giorni. Dopo nove giorni arrivò un bambino con un biglietto di Babaji che diceva: «Ti aspetto il 12 marzo a Jaipur», quando lessi il biglietto era il 9 marzo, quindi mi recai immediatamente a Jaipur. Lì c’erano moltissime persone che attendevano l’arrivo di Babaji, lui arrivò, si andò a sedere su una asana e io mi avvicinai per parlargli e gli dissi: «Babaji, sono Lisetta», lui mi rispose: «Your name is Janki Rani». Mi fece sedere vicino a lui e disse a tutte le persone: «Questa signora è venuta dall’Italia!», come se fosse una cosa molto importante, dopo mi disse che dovevo parlare alle persone che si trovavano lì, e io dissi loro che ero commossa dall’aver riconosciuto Babaji come mio maestro, e che ero felice di trovarmi lì. Restai con lui per un mese, viaggiando per l’India. Arrivati a Bombay gli dissi che dovevo tornare a casa, perché dovevo lavorare e dovevo prendermi cura di mia madre. Lui mi disse: «Vai pure, io sarò sempre con te in Italia» e da quel momento Babaji non mi ha lasciata più.
Nel corso degli anni sono tornata in India a trovarlo molte volte, poi lui mi disse che dovevo creare un ashram, un centro spirituale, in Italia. Così feci, creai un ashram a Cisternino, in Puglia. I primi anni sono stati incredibili, comprai dei trulli che si trovavano su una collina spoglia che poco per volta è diventata una meraviglia, abbiamo anche creato un tempio identico a quello che si trova ad Herakhan, città dove viveva Babaji. All’inizio venivano a trovarci molte persone con problemi psicologici, sieropositivi, persone molto particolari, e per me è stata un’esperienza molto importante, ma quando sono riuscita a far riconoscere dallo stato italiano il nostro centro, che si chiama Bhole Baba, come fondazione, ho presentato le dimissioni da presidente, dicendo ai devoti: «da ora lo porterete avanti voi», e lo portano avanti ancora oggi. Oggi è un ashram sicuramente diverso rispetto a quello delle origini, ma tutto cambia nella vita, tutto cambia.
Flavi Piccinni. La storia dell’incontro con Gora Devi, che chiamò Lisetta dall’Italia e la fece andare in India, è raccontata in un bel diario personale, Babaji il cielo in terra, edito per la prima volta nel 1993 da Amba edizioni e pubblicato anche in Europa. Le splendide fotografie che si trovano nel libro sono di Lisetta, e nel libro Gora Devi racconta i 12 anni trascorsi a fianco di Babaji, ricorda l’ashram cui Lisetta si è ispirata per creare il suo, nato in quel cuore, meraviglioso e pulsante della Valle d’Itria che il regista Daniele Segre ha mostrato nel film documentario Lisetta Carmi, un’anima in cammino, uscito nel 2010 per la casa di produzione Cammelli. Ed è proprio Segre che racconta così l’ashram:
Daniele Segre. Conoscevo da molto tempo il lavoro di Lisetta Carmi, in particolare il suo lavoro con i travestiti di Genova. L’ho incontrata per la prima volta il 17 gennaio 2010 a Ravenna in occasione di una sua mostra fotografica. Sono andato a Ravenna, l’ho sentita parlare, ci siamo conosciuti e da quel momento è nata un’intensa e reciproca passione. Nell’agosto dello stesso anno Lisetta mi ha sentito per radio, alla trasmissione Fahrenheit e a settembre sono andato a Cisternino per girare il film, che è stato poi invitato alla Giornata degli Autori al Festival di Venezia. È come se le nostre anime si fossero incontrate e avessero prodotto una profonda energia. A Cisternino mi sono nutrito della intensità e della felicità che ha sempre mostrato in tutte le vite che ha vissuto, da fotografa, da fondatrice di un ashram, prima ancora da concertista. Insomma, una donna ricca di emozioni intense e di un rapporto con la vita molto positivo. L’ashram di Cisternino è un luogo assolutamente originale rispetto al contesto in cui si è collocato, la mescolanza tra il passato dei trulli e questa presenza strana per quel luogo, che è diventato un luogo di unione e di raccolta di tante persone che lì trovano serenità. Si può essere d’accordo o meno con queste scelte di tipo spirituale così lontane dalla nostra cultura, ma probabilmente in questo momento c’è bisogno di una spiritualità che sempre più manca nella nostra società.
Flavia Piccinni. È un posto che sembra fuori dal mondo, ma che conserva l’anima di quell’India bellissima e perduta che Lisetta Carmi ha avuto la gioia e la fortuna di conoscere. Adesso sembra che l’ashram sia sempre stato lì, tra quegli ulivi e quella terra rossa, e che Lisetta sia sempre appartenuta a questa terra dove ha scelto di rimanere.
Lisetta Carmi. Dopo che ho lasciato l’ashram ho incontrato Paolo Ferrari, che da bambino era stato un mio allievo di pianoforte e che aveva saputo da sua madre che stavo a Cisternino. Non ci vedevamo da trentacinque anni! Mi mandò un suo libro che si intitola Le lezioni dell’assenza, io iniziai a leggerlo e questo libro mi illuminò. Quindi andai a trovare Paolo a Milano dove ha un centro che si chiama “Centro Studi Assenza”, e iniziai a studiare con lui. Ricominciai a suonare e per sei anni andavo una volta al mese a Milano a suonare e a studiare con Paolo. Dopo sei anni ho capito che anche quell’esperienza era finita, e quella era la mia quarta vita. Dopo ho iniziato ad appassionarmi all’arte cinese, alla scrittura cinese, al Tao, al silenzio, al vuoto, al nulla, e adesso vivo nella libertà. Adesso sono una persona libera, faccio quello che è giusto fare nel momento giusto e vivo nel silenzio e nella solitudine. Quando sono arrivata a Cisternino ho osservato come vivevano i contadini: tutti avevano un trullo, dove poi ho vissuto per trent’anni, e una casa in paese per la vecchiaia. Allora la Puglia era praticamente sconosciuta, e quindi potei comprare per pochissimo quel trullo e la casa in cui oggi vivo.
Flavia Piccinni. Lisetta vive nel silenzio, con i suoi occhi grandi e luminosi, che Giovanna Calvenzi ci racconta così:
Giovanna Calvenzi. È una donna speciale, con degli occhi straordinariamente vivaci, brillantissimi, e ha un’enorme capacità affabulatoria, parla sempre con grande entusiasmo, con grande gioia di vivere. Sono queste le cose che di lei colpiscono di più: i suoi occhi e i suoi modi di mettersi in relazione con le persone.
Flavia Piccinni. Ma Lisetta vive anche nel presente, perché adesso non ha più paura del futuro, alle spalle ha quattro vite, e davanti gli scampoli dell’ultima, la quinta.
Lisetta Carmi. Io non sono sposata, non ho figli, il mio compito è quello di aiutare gli altri. Ho avuto centinaia e centinaia di figli spirituali. A questi ragazzi che venivano nell’ashram davo tutto quello che potevo, poi quando andavano via gli dicevo: «sei libero, a me non devi nulla, fai della tua vita quello che vuoi».
Ascolta le puntate di ‘Passioni’.
- Babaji (o Mahavatar Babaji) è, secondo Paramhansa Yogananda, uno yogi immortale che vive sull’Himalaya. Secondo la tradizione, Babaji è il maestro illuminato che nel 1861 iniziò Lahiri Mahasaya al kriya yoga. Alcuni pensano che si incarni di tanto in tanto, mentre altri credono che sia stabilmente incarnato e che il suo corpo ringiovanisca grazie ad una pratica yogica conosciuta a pochissimi come “Kaya Kalpa”. Secondo alcuni, Babaji è apparso nel 1970 in una grotta nel Paese di Hairakhan, in India, senza vestiti e cosparso di cenere in Asana meditativa. In anni recenti, molte persone hanno asserito di averlo visto o di essere state in contatto con lui; il tutto testimoniato da fotografie del guru accanto ai devoti nell’Ashram di Hairakhan. I devoti di questo guru affermano che sia lo stesso Babaji descritto nel libro di Yogananda. N.d.R.
- Donato Manduzio (1885-1948), mistico italiano e fondatore della Comunità Ebraica di San Nicandro Garganico. Reduce della prima guerra mondiale, privo di un’istruzione scolastica ma appassionato lettore, un giorno ricevette in dono una copia della Bibbia. Colpito dalle vicissitudini del popolo ebraico (che credeva estinto) Manduzio, attraverso l’interpretazione di alcuni sogni, disse di essere stato scelto per comprendere il messaggio salvifico contenuto nella Torah, iniziò a seguirne scrupolosamente le prescrizioni e si convertì alla religione ebraica. Manduzio convertì in seguito molti abitanti del suo paese, formando nel 1920 Comunità Ebraica di San Nicandro Garganico. In seguito alla morte di Manduzio, molti appartenenti di questa comunità si trasferirono in Israele. N.d.R.