Rita Iacopino e Nadia Bastogi

MOSTRA: Dopo Caravaggio. Il Seicento Napoletano nelle collezioni di Palazzo Pretorio e della Fondazione De Vito

 

Promossa da                                  

Comune di Prato – Museo di Palazzo Pretorio

in collaborazione con

Fondazione De Vito

Con la collaborazione di              

Opificio delle Pietre Dure

Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Firenze, Pistoia e Prato

A cura di                                            

Rita Iacopino, direttrice scientifica del Museo di Palazzo Pretorio

Nadia Bastogi, direttrice scientifica Fondazione De Vito

Sede                                                    

 Museo di Palazzo Pretorio Piazza del Comune – Prato

 

Il percorso dell’esposizione si articola intorno ai dipinti di Palazzo Pretorio in dialogo con quelli della collezione De Vito, secondo una sequenza cronologica che consente, tuttavia, anche l’indicazione di legami e corrispondenze tematici.

Museo di Palazzo Pretorio Prato – Giovanni Battista Caracciolo detto Battistello, Noli me tangere, 1618, olio su tela, cm 123×142

L’incipit è rappresentato dalla famosa tela di Palazzo Pretorio con il Noli me tangere, originale interpretazione dell’incontro fra Cristo e la Maddalena, riconosciuto capolavoro di Battistello Caracciolo, artista che fu in diretto rapporto col Merisi a Napoli e che per primo ne veicolò con una personale interpretazione il potente naturalismo luministico nell’ambiente partenopeo, influenzando i pittori contemporanei e della generazione successiva; egli vanta anche un soggiorno a Firenze nel 1618, testimoniatoci dalle sue tele nelle collezioni medicee: a questo periodo o a quello immediatamente successivo gran parte della critica ascrive il Noli me tangere del museo pratese. Ad esso fa riscontro il San Giovannino dello stesso Battistello in Collezione De Vito, presentato in Mostra per la prima volta dopo il restauro che ne ha restituito l’originaria cromia; l’artista  interpreta un tema caro al Merisi con un intenso naturalismo di carni e di luci, percorso da una vena di accattivante vivacità fanciullesca. Si accosta ai due dipinti la tela della collezione De Vito, in rapporto stilistico e tematico con essi: il San Giovanni Battista con l’agnello di Massimo Stanzione, firmato, databile agli inizi degli anni trenta, tra i più significativi esempi della fase giovanile dell’artista, che interpreta un soggetto caravaggesco con un linguaggio ancora aderente a uno spiccato naturalismo ma già attento ad analoghe elaborazioni di Guido Reni. Verso la metà degli anni trenta è databile anche il Matrimonio mistico di Santa Caterina, di Paolo Finoglio, opera rappresentativa di un pittore di formazione tardo manierista convertitosi al naturalismo e influenzato dal Caracciolo, caratterizzata da una materia pittorica sontuosa e un uso brillante del colore, in cui è implicita un’affinità compositiva con il Noli me tangere di Battistello nel taglio ravvicinato e obliquo delle mezze figure e nell’intenso gioco della luce, che ne accentuano i legami emotivi.

Il secondo nucleo di dipinti si articola intorno a Jusepe de Ribera, l’artista spagnolo attivo a Napoli dalla metà del secondo decennio, che fu senz’altro la figura determinante per lo sviluppo del filone più integrale del naturalistico caravaggesco in ambito partenopeo; a capo di una bottega a cui fecero riferimento numerosi artisti e collaboratori, egli fu interprete di alcuni temi che avranno particolare fortuna, come quelli delle serie con mezze figure di santi e di filosofi, o allegoriche dei cinque sensi, svolte con una spiccata vena realistica. Del Ribera si espone il dipinto di Collezione De Vito raffigurante Sant’Antonio abate, a mezzo busto, opera poco nota e fra le più importanti della collezione; sicuro autografo del maestro grazie alla firma e alla data 1638 presenti sulla tela, essa mostra il suo icastico naturalismo espressivo nell’efficace descrizione del volto senile, ma già ne rivela anche la svolta degli anni trenta verso un maggior pittoricismo.

Museo di Palazzo Pretorio Prato- probabile replica da Jusepe de Ribera, Giacobbe nel deserto, Post 1632, olio su tela, cm 182×234 in restauro all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

Le raccolte di Palazzo Pretorio conservano un’importante testimonianza dell’interesse collezionistico per Ribera: un dipinto seicentesco con Giacobbe e il gregge di Labano, che replica, anche nelle dimensioni, la famosa tela dipinta dallo spagnolo per l’Escorial di Madrid; giuntoci in pessimo stato di conservazione esso è attualmente oggetto di un complesso restauro da parte dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, i cui esiti renderanno possibile una corretta lettura dell’opera e della sua autografia, da individuare, presumibilmente, se non nel maestro, in un collaboratore del suo stretto ambito. In un apposito spazio all’interno dell’esposizione e nel catalogo si darà conto con schede scientifiche e strumenti di riproduzione digitale a cura dell’Opificio, delle metodologie di restauro e dei risultati parziali raggiunti a quella data.

Accanto a Ribera si evidenzia la significativa presenza di tre tele di collezione De Vito del cosiddetto Maestro dell’Annuncio ai pastori, un artista di grande qualità allievo dello spagnolo e interprete della linea più pauperistica del suo naturalismo, oggetto di importanti studi di De Vito, che ne aveva proposto l’identificazione con Juan Dò. Si tratta del Vecchio con Cartiglio, che reca un’iscrizione di insegnamento morale, dell’Uomo con specchio, probabilmente identificabile con un filosofo socratico o con una allegoria della vista, e della figura del Giovane che odora una rosa, anch’essa probabile allegoria dell’olfatto; tutti dipinti databili agli anni Quaranta e caratterizzati da una pittura di toni bruni su fondo scuro, che restituisce figure di realistica intensità espressiva, cariche, tuttavia, di ulteriori sottili significati, fra le più affascinanti della raccolta. Sempre dalla Collezione De Vito, si espone la tela con un Profeta di Francesco Fracanzano, appartenente alla fase giovanile del pittore, intorno al 1640, dove è evidente nella gigantesca figura velocemente definita dalla pittura, l’influenza del naturalismo di artisti come Ribera e il Maestro dell’Annuncio ai pastori.

Fondazione De Vito-Maestro dell’annuncio ai pastori (Juan Dò?), Giovane che odora una rosa, 1640-1645 ca., olio su tela cm. 104 x 79

I dipinti di Battistello e Finoglio ci introducono a un gruppo di opere che si caratterizza per i soggetti con protagoniste femminili, dalle differenti personalità e ruoli. Donne legate a episodi testamentari, come appunto, la Maddalena del Noli me tangere, quali la Samaritana al pozzo o le figlie di Loth che seducono il padre, impegnate in narrazioni dialogiche di sapore teatrale, sia Sante Martiri come Caterina, Lucia, Agata, soggetti fra i più ricorrenti nella pittura napoletana del Seicento, qui interpretate con lirica partecipazione emotiva. Tale gruppo di dipinti della collezione De Vito ci permette anche di ripercorrere le tendenze degli anni quaranta e cinquanta del secolo, nei quali artisti di formazione naturalistica recepirono diverse influenze, dal classicismo romano-bolognese, all’adesione alla svolta pittorica degli anni trenta con l’apertura alla corrente neoveneta e l’impreziosimento della luce e del colore, all’influenza di Artemisia Gentileschi e delle opere di Rubens e van Dyck. Esempio superlativo è la tela di Collezione De Vito con la Santa Lucia di Bernardo Cavallino, maestro di grazia, dove al naturalismo dei particolari si uniscono i raffinati accostamenti cromatici e le preziose iridescenze del colore, in forme di sensuale eleganza. Gli fanno eco artisti sensibili alla sua influenza: Andrea Vaccaro, con la Sant’Agata, emergente dallo sfondo scuro che ne evidenzia il biancore delle carni martoriate, avvolte nel blu straordinariamente intenso del manto; Antonio De Bellis, presente con il suo capolavoro, la grande tela con Cristo e la Samaritana, che ripropone con originalità il tema dell’incontro della donna con Gesù, caratterizzandolo per il serrato dialogo gestuale, l’eleganza delle figure e l’attenzione naturalistica a particolari dell’ambiente come la brocca di rame e il pozzo istoriato. Chiude la sequenza la tela con Loth e le figlie, collocabile nella fase più tarda di Francesco Fracanzano, nei primi anni Cinquanta, nella quale si può notare il costume della figlia che richiama le figure femminili ammaliatrici della maga e della zingara; vi si manifesta, inoltre, l’evoluzione stilistica dell’artista dal naturalismo verso un maggior classicismo nelle forme e una tavolozza più ricca e schiarita.

Il successivo gruppo di quattro dipinti si incentra sulla figura di Mattia Preti, l’artista di origini calabresi, documentato a Napoli dal 1653. Egli fu protagonista della scena artistica partenopea di metà secolo, insieme al giovane Luca Giordano, contribuendo in maniera determinante a traghettare il naturalismo verso un linguaggio pienamente barocco di grande espressività pittorica. Preti è presente nelle collezioni di Palazzo Pretorio con la grande tela raffigurante il Ripudio di Agar, nel quale è di nuovo protagonista una figura femminile. Pur se giunta in non ottimali condizioni di conservazione, l’opera è di grande qualità nella vivida macchiatura di luce e ombra, tipica dell’artista, nei rimandi cromatici e nella vivace sceneggiatura dell’episodio biblico, caro all’artista che lo rappresentò in diverse varianti.

Dialoga con essa uno dei quadri più ammirati dell’artista, risalente agli anni dei suoi esordi napoletani, verso il 1656: la grande tela con Scena di carità con tre fanciulli  della Collezione De Vito, il cui soggetto non ha confronti nella produzione contemporanea; nel taglio ravvicinato dei tre giovani mendicanti l’artista sembra voler conferire monumentalità e sacralità a una tranche de vie perfettamente calata nell’ambiente napoletano, dando vita a un dipinto di straordinario impatto emotivo e di profonde valenze religiose. Accompagna le due grandi tele il bozzetto di Preti per il San Marco Evangelista affrescato nella cupola di San Biagio a Modena nel 1651-52, che ci mostra l’impiego di questa tecnica nelle fasi ideative di un importante ciclo; essa è un bell’esempio del suo efficace uso dello scorcio trasversale e dello sviluppo dinamico di una singola figura in un vigoroso linguaggio pittorico.

FONDAZIONE DE VITO – Mattia Preti, Scena di carità con tre fanciulli, 1656-1658 ca., olio su tela, cm. 171 x 124

L’evoluzione di Preti verso una pittura di lucida evidenza ma dai toni cromatici più chiari e raddolcita nelle ombre, tipica della sua fase più matura e in linea con gli sviluppi degli ultimi decenni del secolo, è esemplificata da un capo d’opera del periodo in cui l’artista si trasferì a Malta: la Deposizione dalla croce ora in collezione De Vito. Il taglio fortemente ravvicinato che impagina in modo originale la scena, lo scorcio obliquo con cui si rovescia verso lo spazio dello spettatore il corpo di Cristo, ancora sospeso fra l’inchiodatura alla croce e la cura degli astanti, ci mostrano la capacità del linguaggio pienamente barocco di Preti di coinvolgere lo spettatore.

L’opera ci accompagna nella seconda metà del secolo, dominata dal genio di Luca Giordano, multiforme protagonista del barocco napoletano. Dei suoi seguaci fa parte Nicola Malinconico, del quale Palazzo Pretorio conserva una delle maggiori opere, suggestiva anche nel suo legame con le attività di misericordia e di cura: il Buon Samaritano, appartenente alla sua fase tarda. Se alla formazione giordanesca sono da riferire senz’altro la brillante cromia e la morbidezza e libertà della pennellata, nella composizione egli rielabora entrambe le interpretazioni che dello stesso soggetto avevano dato Ribera e il maestro.

Con quest’ultimo artista si arriva alle soglie del Settecento, in un clima artistico ormai mutato ma nel quale artisti napoletani come Francesco Solimena continueranno ad avere un ruolo di primo piano nelle corti europee.

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