Paola Musa

FICTION: L’ora meridiana

Sinossi dell’opera. Lorenzo Martinez, un ricco quarantenne cocainomane, prende atto una domenica di giugno che quattro fatti lo minacciano: sua moglie l’ha lasciato, la sua azienda è in difficoltà economiche, la sua amante lo tradisce, il suo socio e amico Antonio è scomparso. 
Incapace di ricordare che cosa è accaduto, sfugge continuamente alle emozioni più profonde cercando, come ha sempre fatto, soltanto eccitazione o annientamento, permettendo così a una serie di personaggi di cucirgli addosso un delitto che lui non e’ sicuro di aver commesso.
L’ORA MERIDIANA racconta in una cornice contemporanea i demoni dell’accidia, quel “vorticare catatonici e depressi nella frenesia di un’esistenza votata infine all’effimero”, espressione di un vizio capitale ancora attualissimo.

Primo capitolo de L’ORA MERIDIANA, Arkadia Editore.
L’estratto è pubblicato in accordo con l’editore.

1

     Mia moglie mi ha lasciato. Ufficialmente è accaduto alle sette di questa mattina, ma i segni c’erano tutti dalla sera precedente, anzi, sicuramente da molto tempo prima. Sebbene non mi sia mai preoccupato di coglierli.

     Ieri durante la cena non abbiamo scambiato una parola. Lei ha aspettato il mio rientro nonostante fosse già molto tardi. Mi sono seduto a tavola per pura educazione, ma non avevo fame. Mi sono giusto versato un bicchiere di vino e poi ho incollato lo sguardo al televisore.

L’aria crepitava nello spazio breve dei nostri corpi dirimpetto. I nostri sguardi ogni tanto s’incrociavano ma con una debolezza più pronunciata: sembravano oscillare nel mezzo di una strada che pratichiamo da anni, ma come due estranei.

     Avevo l’impressione che entrambi trattenessimo il respiro, e non per tenere a bada una qualche forma di emozione, negativa o positiva che fosse. Un’aura d’indifferenza sembrava bloccarci senza farci sentire padroni di niente, nemmeno della nostra distanza. Sono quasi certo che Sofia si sia indispettita, per questo. Si era sicuramente preparata un bel discorsetto e avrebbe volentieri affrontato la questione in quel momento.

     Per attirare la mia attenzione, nascondendo, come meglio poteva, il suo senso di frustrazione, mi porgeva regolarmente e con una cortesia irritata piatti colmi di cibo. Io mi limitavo ogni volta a fare un cenno di diniego con la mano, portando altrove i miei pensieri.

     Alla fine, stremata, ha lasciato cadere l’ultima portata con una certa violenza sul tavolo. Non con troppa violenza, però. Aveva utilizzato il servizio bordato in oro zecchino, il suo preferito, il più prezioso. Non avrebbe avuto intenzione in alcuna circostanza, di sfregiare davvero anche uno solo di quei piatti.

Mi sono per un istante soffermato a domandarmi perché proprio quel servizio, perché tanta eleganza formale per un momento tanto desolante. Aveva pure imbandito la tavola con la tovaglia di fiandra, quella che solitamente usa per gli ospiti. Non capirò mai il bisogno delle donne di affidare a certi rituali la messa in scena delle loro scelte.

     I suoi preparativi non hanno comunque funzionato. Con me è difficile che qualcosa funzioni davvero nel verso giusto. La mia apatia è senz’altro contagiosa. O, forse, per farsi montare la rabbia occorre avere delle ragioni serie e non solo dei comodi pretesti.

     Ieri era sabato e la servitù fuori per il giorno libero. Ottimo momento per stare soli e magari urlare, deve aver pensato, giusta occasione per graffiarsi il viso senza testimoni, insultarsi e rinfacciarsi a vicenda le reciproche mancanze. Non le è mai mancato il senso dell’organizzazione.

Perché tutto potesse funzionare, tuttavia, occorreva anche attingere a qualcosa che dentro si muovesse ancora vivo, sebbene rantolante. E lei probabilmente questo qualcosa non lo trovava. Io non avevo comunque alcuna intenzione di reggerle il gioco.

Sofia si è alzata di scatto per sparecchiare rinunciando a mangiare la frutta. Ha fatto avanti e indietro più volte con passo nervoso e concitato, neanche tentava più di attirare il mio sguardo. Al terzo andirivieni ha afferrato il telecomando e ha scelto il canale del notiziario locale, convinta di potermi scuotere. Sapeva con diabolica certezza che avrebbero detto qualcosa che mi riguardava.

     Ho mantenuto la calma. Ho ripreso il telecomando al suo allontanarsi e ho cambiato canale. Un documentario mostrava un serpente che ingoiava una mucca tutta intera, gonfiandolo a dismisura. Sofia è sopraggiunta nel momento in cui il corpo della mucca stava penzoloni nella sua bocca, e ha fatto un’espressione disgustata.

     E’ ritornata in cucina. Dalle mani le è scivolato un bicchiere, ha bestemmiato. Sentivo le setole della scopa ferirsi con i cocci affilati, un rantolo di umiliazione nei suoi movimenti bruschi.

Poco dopo le è squillato il cellulare che si trovava sul tavolo. Non ho avuto il tempo di sbirciare il numero perché lei è tornata indietro come un uccello rapace ed è volata via a rispondere nel salone, chiudendosi la porta alle spalle. Qualche amica, ho immaginato. Sono le più perfide consigliere, le più tenaci, in queste circostanze. La conversazione è durata circa quindici minuti, ma non mi sono sognato nemmeno un momento di andare a origliare. Ho bevuto altri due bicchieri di vino mentre il serpente soddisfatto si pasceva del suo pranzo, poi sono andato a urinare.     

     Sofia evidentemente aveva trovato la forza, dopo l’incoraggiamento dell’interlocutore – che molto probabilmente la spingeva a non cedere a ripensamenti – per vomitare quello che si era preparata a dirmi. Ho sentito i suoi tacchi raggiungermi in bagno. Ha sempre avuto questa maledetta abitudine di vestire tutto punto e portare i tacchi anche in casa, forse per mettere le distanze tra sé e il personale, forse perché era il suo sogno di ragazzina ed è riuscita a coronarlo sposando me, e sicuramente manterrà quest’abitudine, nonostante me.

     La porta del bagno l’avevo lasciata aperta. Sapevo che mi guardava ma ho continuato a sgrullarmi indifferente senza voltarmi, e lei si è bloccata di nuovo. Non è facile, probabilmente, aggredire con recriminazioni costruite a tavolino un uomo con le braghe abbassate. Ha allora deciso di prendere tempo e si è chiusa nell’altro bagno. Ha acceso la radio a tutto volume. Forse per piangere, chissà.

A me è presa la voglia, in attesa che accadesse l’inevitabile, di girovagare per casa: la nostra secolare, confortevole villa ristrutturata ‘all’ultima moda’ – per immaginare come l’avrei vissuta, una volta da solo.

Occorre abituarsi anzitempo all’inevitabile, mi è venuto da pensare. E’ necessario crearsi, per così dire, dei nuovi scenari. In quel momento avrei voluto – davvero, mi sarebbe piaciuto – avvertire qualcosa, che so, un nodo alla gola, ad esempio, un restringimento allo stomaco, un cedimento delle gambe. Gli scenari servono a questo, a intuire sensazioni prossime, possibili e probabili anche attraverso i sensi. Patiamo volentieri con l’immaginazione, a volte ci consolano anche gli scenari più terribili, poi magari quando questi scenari si avverano, non riusciamo a capire o accettare che stia accadendo proprio a noi.

Tuttavia anche con gli scenari immaginati non ho provato un bel niente. L’unico pensiero dominante, ricorrente, era che questa casa fosse stata per Sofia il suo regno per quasi sedici anni. Non il mio, che non sono di questo ne’ di alcun altro regno. La furba Sofia, che ha riempito col tempo la mia casa del suo dubbio gusto, con le sue manie di grandezza, con la voglia di lusso, con tutti i suoi capricci condizionati dalle mode. Sicuramente avrà difficoltà a lasciarla. La casa, intendo. Non me. Ecco perché non era così facile per lei, decidersi a parlarmi.

     Poi anche gli inutili scenari mi hanno stancato. Mi sono trascinato con passo incerto verso il salone. Il ritratto di mio padre, che Sofia ha preteso di lasciare sopra il camino di marmo di Carrara, quell’orribile ritratto da imperatore di tubi, sfoggiava un sorriso freddo e sarcastico. Era sempre lo stesso, ora non lo disprezzavo ne’ più ne’ meno, però mi ha fatto imbambolare per un istante. Ero certo che Sofia si sarebbe portato via anche quello, potendo, perché tanto lo so che ha avuto più stima per lui che per me.

Se fosse ancora vivo, mio padre, direbbe che questa situazione è tutta colpa mia. E’ sempre stata tutta colpa mia ma ho avuto il pregio di non essermi mai sottratto a questo giudizio.

     Mi sono messo quindi a fissare i miei piedi e ho sollevato divertito le punte, come facevo sempre quando era vivo e mi rimproverava per qualcosa. Così, tanto per fargli un dispetto, per lasciargli intendere che non me ne importava un bel nulla dei suoi giudizi da morto. Poi, mi sono sdraiato sul divano e ho acceso l’altro televisore. Il documentario sui serpenti purtroppo era terminato, dopo la pubblicità ne sarebbe iniziato uno sui terremoti. Non m’interessava.

     Ho dato uno sguardo all’orologio mentre cercavo un altro canale, e in quell’attimo di distrazione un altro telegiornale locale ha nominato la mia azienda. Mi sono affrettato a cambiare, ma l’immagine di Antonio si è insinuata furtiva, a tradimento. In un ricordo deformato rideva con la sua bocca larga, smagliante. Sembrava come sempre intuire tutto. Avevo l’impressione si prendesse gioco di me. Ho preferito ancora una volta ricacciare indietro le domande, i dubbi, la sua faccia, e ho scelto un altro canale in cui trasmettevano un film d’azione, con gangster fascinosi e pupe tutte culo e tette.

     Devo essermi assopito, in quel frastuono, ma per non più di venti minuti. Poi un sussulto, la sensazione che Sofia fosse lì, a spiarmi. Mi sono voltato. Era davvero lì. In accappatoio, con un bicchiere di vino in mano, mi fissava. Muta. Non so se per un moto di forzata tenerezza o per un residuo di buone maniere, ma mi sono messo a sedere. Ho sollevato lo sguardo lentamente all’altezza del suo. La mia espressione deve averle comunque comunicato che sarebbe stato inutile: nessun ponte da abbassare, neanche per forma o per necessità, tra me e lei.

     La pupa del film aveva intanto sparato sul gangster ma lui non era morto.

     Sofia ha avuto come un sussulto, una sorta di rabbia che è stata costretta a soffocare in un singhiozzo, e in quel tentativo di controllarsi il suo corpo ha ondeggiato, facendo rovesciare un po’ di vino sul pavimento. Dopo aver fissato per un istante le gocce che si spargevano sul parquet, si è limitata ad asciugarle con il piede nudo. Nel farlo, mi ha voltato le spalle, e quando ha raddrizzato la testa, non mi ha più guardato ed è salita di corsa su, per le scale, offesa quasi più con se stessa che con me.

Si è diretta nella stanza da letto. Ha aperto più volte gli armadi. Ha frugato nei cassetti. Tutto questo non l’ho udito o visto ma l’ho immaginato con una certezza inossidabile. Non sarei rimasto sorpreso di trovare le valigie fatte, entrando in camera.

     Mi ero sbagliato, ma di poco. Quando sono salito, le valigie non le aveva ancora tirate fuori dal soppalco ma aveva già organizzato il beauty case e una sfilza di biancheria sopra il comò. Sicuramente aveva deciso di riprendere la rappresaglia all’alba, anche perché non sarebbe andata comunque via prima del giorno dopo – perché mai rovinarsi anche tutta la notte?

     Nonostante ciò, Sofia si è agitata per ore, nel letto, sbuffando e rigirandosi continuamente. Mentre mi spogliavo, rimaneva ostinatamente spalle. Mi sono adagiato cautamente accanto a lei. Nella camicia di raso la sua sagoma era bella, sensuale. Era a pochi centimetri ma inavvicinabile. L’immagine che mostrava di sé faceva forse parte inconsciamente del suo rituale, esattamente come la tovaglia di fiandra.

Dopo essersi rotolata più volte su se stessa, a un certo punto si è tirata addosso il lenzuolo con violenza nell’ostinato tentativo di rannicchiarsi in un luogo e uno spazio inaccessibile, per poter dormire, annullarsi. Non ci è riuscita subito. Si è alzata ben tre volte per scendere in cucina a bere qualcosa e a fumare una sigaretta. Ogni volta che rientrava in camera, nel buio sentivo il suo sguardo pugnalarmi la schiena e al contempo avvertivo un sospiro acre di fumo misto a un sentimento impastato che assomigliava alla pietà, tiepida però, quasi forzata. Naturalmente io ho fatto tutto il tempo finta di dormire.

     Sono rimasto immobile, senza riuscire ad assopirmi neanche un istante, e non solo perché avevo compreso chiaramente la sua decisione. Pensare mi costava fatica ma qualche riflessione ero pur costretto a farla.

E’ un periodo pesante, sotto tutti gli aspetti. Mi manca il mio eccitante artificiale. Non posso quasi più uscire da casa per andare dove mi pare. Gli affari vanno male. Yasmina, quella pazza, non ne vuole sapere dei miei problemi, ha già i suoi. Antonio è svanito nel nulla. Mi sta franando tutto addosso. Avverto tutti i campanelli d’allarme, ma non riesco a far altro che restare immobile, a guardare nel buio, come uno spettatore disincantato, la mia rovina.

     Così dopo circa mezz’ora sono venuti a visitarmi gli scenari del passato, perché quelli del futuro li avevo liquidati troppo in fretta e perché trattenersi nel presente nell’ora del riposo può essere insopportabile anche per chi è avvezzo al tedio. Ho pensato che fosse naturale, pur nella mia incapacità di soffrire del momento, trascinarmi indietro, fino all’inizio della nostra storia.

     Ho rivisto me e Sofia agli inizi della nostra relazione. La sua timida euforia quando andavo a prenderla all’uscita della scuola, invidiata dalle compagne, lei figlia di un operaio di mio padre, l’integerrimo ingegner Martinez, uno degli uomini più in vista della provincia. Era lei la Cenerentola prescelta per un principe senza alcuna sfumatura di azzurro.

     Mi eccitava tanto il suo odore di profumo dozzinale sopra la pelle di sapone puro, la parola schietta e non ancora inibita dalla forma, l’imbarazzo tinto di orgoglio. Mi piacevano anche la sua bocca e le sue tette. Aveva qualcosa di ancora immacolato, Sofia, che sarebbe spettato a me deflagrare, che io avevo fretta di sporcare più per opposizione a mio padre che per cattiveria nei confronti di lei, ma a mio padre, quella ragazzina inaspettatamente piaceva. Si piacevano davvero, e questo fu il mio ennesimo fallimento.

     Comunque tutto aveva funzionato, tutto era scivolato senza intoppi, agli inizi. Le avevo voluto anche bene, e c’era stato un periodo in cui avevo provato la sensazione di assaporare una sorta di speranza lieta, leggera. Era quello il tempo in cui evitavo di riconoscermi nel mio abisso vuoto. Sofia, i primi mesi, mi guardava con ammirazione e si lasciava guidare, era tutto nuovo per lei, accedeva a delle opportunità che a molte delle sue amiche sarebbero state precluse per sempre.

     Io i soldi non sapevo ancora farli e non ci sarei riuscito nemmeno dopo, ma sapevo ben spenderli. Sofia si lasciava trascinare nelle città d’Europa ed io riuscivo a sorprenderla, talvolta. Ero già allora una nullità e lo sapevo, ma almeno avevo ancora la passione per qualcosa, per le città e la loro storia, ad esempio, forse per cancellare il peso della mia città e della mia storia familiare, nel tentativo di immaginarmi altrove, di aderire e far parte di qualcosa o di qualche luogo magari, dove non avrei avuto la forza di spingermi se non con un pensiero indolente.

     Rivedo Sofia con lo sguardo puntato sulla Gedachtniskirche di Berlino, mentre le spiego che l’edificio era stato quasi totalmente distrutto da un bombardamento e lasciato così, a monito dei disastri che provoca la guerra. Ricordo che parlavo con una foga per me insolita della seconda guerra mondiale e della Germania, e lei mi restituiva uno sguardo perplesso, inorridito, che non capisce, di una che pensa, con un’ingenuità turbata: «…ma è come mostrare una donna mutilata di una gamba, a che serve mostrare una cosa tanto brutta!».

     Per farmi smettere, aveva voltato bruscamente lo sguardo da un’altra parte. «Non mi piace questa città! E’ inutile che cerchi di farmela piacere. Portami al mare, piuttosto. Qui è tutto grigio e fa freddo, piove sempre… Perché non mi hai portato in Costa Azzurra, o che ne so, in un posto simile, dove va sempre la gente che ha i soldi? Perché cavolo mi porti sempre in queste città terribilmente noiose?». – E già allora, avrei dovuto capire che quelle poche cose per le quali conservavo una piccola stima di me, lei non le avrebbe mai viste, non avrebbe mai potuto vederle.  

     Nonostante le prime avvisaglie d’incomprensione, Sofia sapeva comunque attirare la mia attenzione, soprattutto con il sesso. L’ho desiderata più di quanto l’abbia amata, in tutti questi anni. Stranamente, la desidero ancora. E di questo non mi vergogno, anzi, mi da’ la riprova che sono ancora uomo nella misura in cui ho un sentire animale, istintivo. La desidero anche adesso, con un parossismo che mi spingerebbe a violentarla, qui, ora. Non per umiliarla, no. Solo per sentire che anch’io sono parte di qualcosa. Me ne manca il coraggio.

     Verso le quattro del mattino è riuscita ad addormentarsi. In uno stato di delirio ha pronunciato parole. Non mi sono soffermato sul senso: non c’era alcun significato in quelle frasi sconnesse. Piuttosto il tono, quasi cavernoso, come l’eco di un pozzo, mi sfiorava l’epidermide e invece di angosciarmi ha di nuovo risvegliato l’eccitazione di qualche ora prima. Ho provato di nuovo la voglia di prenderla nel sonno, di schiena, con brutalità, come una sconosciuta adescata per strada.

     Sognava sicuramente qualcosa di brutto, forse proprio me, e senza accorgersene si è rigirata all’improvviso, ha aperto le braccia come ali spaventate, sbattendomi l’avambraccio all’altezza della gola. Ali pesantissime, rabbiose.

Sono rimasto fermo. Lei ha continuato a sussurrare qualcosa, spingendomi per un po’ il polso all’altezza del viso. L‘ho scostato cercando di non svegliarla.

     Alle sei del mattino si è messa seduta sul letto, repentinamente, come un soldato pronto all’appello. Si è passata le mani sul viso per levarsi il torpore e mettere ordine sulle cose da fare e da dire, non più procrastinabili.  Io ho aperto gli occhi ma lei non se n’è accorta.

     E’ scesa di sotto e ho sentito che armeggiava con la macchinetta del caffè. Dopo qualche minuto il suo aroma ha risvegliato i miei sensi.  Mi sono detto che tanto sarebbe stato inutile evitarla ancora e così mi sono alzato anch’io.

     Ho fatto in modo che udisse i miei passi, ma quella non si è degnata di versarmi il caffè, come fa di solito. L’ho fatto da solo. Giravo e rigiravo il cucchiaino nella tazzina, con il fondoschiena poggiato al lavello, fissandola solo per irritarla. Ci sono riuscito.

«La fai finita?»

«Cosa c’e’, Sofia?».

     Mi sono portato lentamente il caffè alla bocca. Sentivo la voglia deliberata di provocarla, farla arrabbiare, ma per uno scopo che lei neanche immaginava.

«Che cosa c’e’! Che cosa c’e’! Bella faccia tosta la tua!».

     Ha cominciato a girare intorno al tavolo della cucina come un animale che si rende conto di essere finito nella gabbia preparata per altri. Per un attimo ha avuto  un ripensamento, ha preso tempo. Doveva senz’altro mettere ordine nell’elenco di cose da rinfacciarmi. Forse non sapeva da quale iniziare.

«Bene. Se non hai nulla da dire io me ne torno a letto».

«Tu, bastardo”!».

     Mi ha afferrato la spalla per riportarmi indietro. Un po’, lo confesso, mi è piaciuto.

«Stai rovinando tutto, dove metti mano tu, tutto si guasta!».

«A cosa ti riferisci? All’azienda?».

«All’azienda…a tutto!».

«Stiamo passando dei guai con l’azienda, Antonio è scomparso e tu mi accusi di rovinare…cosa?».

«Senti, non prendermi per i fondelli, va bene? Non ci provare! Siamo nella bocca di tutti! Tutti i cazzi nostri in piazza! Oramai mi vergogno anche ad uscire!».

«Ma di che cosa stai parlando? Quali sarebbero questi cazzi nostri messi in piazza, eh?».

«Il tuo, soprattutto!».

     Ecco, ho pensato. Ha trovato la strada possibile per zittirmi. Ho fatto finta naturalmente di mostrarmi meravigliato. Continuava a fissarmi con furore.

 «Credevi che non lo sapessi?» – incalzava.

Così ferina. Così audace. Mi attizzava. Così spavalda.

«…Credevi che non sapessi anche prima di tutto questo casino di quella troietta extracomunitaria che potrebbe essere tua figlia? Lo stai facendo per umiliarmi, non è così?».

«Non credo che la ‘piazza’, come dici tu, sappia di questa mia storia. E’ più interessata a vedermi andare in malora per altre questioni. E poi non ti credevo una razzista».

«Lo so io e tanto basta! Sono tua moglie o cosa sono, eh? E non sono razzista…ma quella lì…che cosa credevi, che me ne sarei stata per sempre a guardare, a sopportare?».

«No… infatti hai scelto il momento giusto, mi pare, per colpire».

     Mi ha fulminato con lo sguardo. Non sopportava di essere giudicata per il suo tempestivo opportunismo.

«Sto solo cercando di reagire a una situazione diventata insostenibile…credi sia facile, per me, mettermi alle spalle sedici anni? Forse per te è facile, tanto non ti frega nulla di nulla, a te! Che razza di uomo sei, me lo spieghi? Una donna può mettere pure in conto che il proprio marito, prima o dopo…ma tu, con chi te la fai, eh? Con una tunisina pazza, una con il piercing e anche drogata! E’ per la droga che la frequenti, non è vero? Non ti vergogni? Non ci pensi alle stronzate che fai? L’altro giorno l’hanno pure vista prendere a pugni un cliente in quel locale dove lavora…».

«Chi l’avrebbe vista? La stai facendo pedinare?».

«Sì! Che cosa credevi, che fossi un’ingenua?».

«Non l’ho mai pensato».

«…E quel che è peggio, continui a frequentarla nonostante tu abbia in questo momento gli occhi puntati addosso: tutti i giornali non fanno che parlare della sparizione di Antonio e delle difficoltà dell’azienda…se fosse ancora vivo tuo padre…»

«Lascia stare mio padre».

     Si è bloccata per un istante. Non è abituata a ricevere un tono fermo, da me. Si è messa a sedere. Ha cominciato a piangere. In fondo nel mio fallimento ci sta dentro anche lei. Non sopporta l’idea che la sua vita ‘perfetta’ sia stata sporcata da certi stupidi dettagli. Non lo aveva previsto. Certe donne sono fatte così, lo dico sempre, vorrebbero poter pianificare fino all’ultimo giorno della loro vita. Sofia continuava a piangere, e a singhiozzare, da vera isterica.

Ho sempre detestato vedere qualcuno piangere. Mi sono versato un altro caffè e ho smesso di guardarla. Lei intanto stava raccogliendo le forze per emettere la sua sentenza definitiva.

«Non si può andare avanti così. Io me ne vado. Ti lascio».

     Non ho ribattuto. Ho continuato a sorseggiare il mio caffè senza darle soddisfazione.

«Mi hai sentito? Ti lascio!».

     Certe donne sono senz’altro fatte così. Decidono di infilarti il coltello nel collo e pretendono che tu reagisca, che tu implori, solo per trapassarti meglio.

«Ti lascio! Ti lascio!».

«Forse è meglio se ritorno in camera» -, le ho risposto.

Lei a quel punto si è avventata come una furia e mi ha afferrato nuovamente le spalle, ha cominciato a darmi dei pugni sulle scapole con le nocche. Io mi sono piegato un poco, ho pensato, vorrei voltarmi e baciarla, forse lo farò… perché avvertivo che non era più una messa in scena: il suo senso d’impotenza era autentico, la sua rabbia era illuminata da una qualche forma di sentimento per me.

E’ rimasta avvinghiata per qualche istante. Non urlava più. Però ha sussurrato: «Neanche un figlio, mi hai dato. Neanche questa gioia, hai saputo lasciarmi. Sei davvero un uomo di merda».

     Mi diceva queste cose, però, con un accento nuovo, come se fosse consapevole all’improvviso che non le piaceva l’idea di chiudere così, sbattendo la porta, da estranea qualsiasi. Le occorreva una scaramuccia che sfociasse in uno scontro tra corpi, un’intensità straziante e animale da trasformare in ricordo e da portarsi via insieme ai vestiti, alle scarpe e ai gioielli. Aveva bisogno del sesso dell’ultima volta. E allora ho pensato che non mi ero sbagliato, che la mia voglia di lei non era solo una mia voglia, che mi aveva provocato tutto il tempo per questo, pur senza esserne consapevole.

     Mi sono detto. E sia. Ti prendo qui.

Mi sono voltato e le ho strappato la camicia da notte. Lei ha finto di resistermi, ma era esattamente quello che voleva. Le ho imprigionato i fianchi con un braccio e con l’altra mano le ho afferrato il capezzolo, stringendolo fino a farla urlare. Lei ha tentato di allentare la presa ondeggiando nel suo desiderio oscuro di respingimento e avvicinamento. E mentre cercavo con cupidigia la sua bocca, nel momento in cui ha cominciato a dimenarsi mostrandosi però sempre più cedevole, mi è parso evidente questo: ecco il solito gioco, la scontata pantomima, ecco, ora sarà lei a baciarmi, magari pensando che lo fa solo per mostrare la sua forza, tacendo a se stessa che in fondo non è poi tanto atroce, niente è più atroce della mia freddezza, niente è più irritante della mia indifferenza – tanto meglio questo morso animale che fa sanguinare.

     In un attimo ci siamo ritrovati per terra. Per fare spazio ai nostri movimenti, ho rovesciato una sedia e l’ho allontanata con un calcio. Ti voglio prendere qui, carponi, come una cagna, le ho sussurrato. Animale voleva sentirsi, senza ammetterlo, e così l’ho accontentata. L’ho afferrata per il collo e ho esercitato il ruolo di maschio prendendola di schiena.

     Mi sono meravigliato io stesso di tutta quella mia improvvisa vitalità. Anche lei sembrava spiazzata e niente affatto dispiaciuta. Nella sua testa bacata, forse le correva un pensiero, il più banale, credo: che io in fondo non potessi fare a meno di lei, che io la desiderassi ancora, che la amavo, forse. Era quel pensiero probabilmente che la faceva tanto cagnetta. Le stava piacendo, altroché. Un mugolio finale, seppure soffocato per non darmi troppa soddisfazione, me lo confermava.

     Poi ci siamo ritrovati esausti con la schiena nuda sul freddo pavimento. Sofia ha incrociato le braccia sul petto, come una morta. Era un chiaro messaggio per me.

«Questo non cambia nulla», mi ha detto.

Per lo meno in quel momento è stata sincera. Non ha finto che non le fosse piaciuto.

     Si è sollevata con uno slancio atletico ed è andata a farsi una doccia. Il sesso appena consumato sembrava averle ridato vigore anche sulle decisioni da prendere. E’ andata al piano di sopra, ha preso le valigie dal soppalco, ha fatto per un po’ avanti e indietro per infilare tutte le cose già organizzate con cura maniacale nelle sue valigie bianche.

     Io intanto sono rimasto sdraiato, immobile. Un senso di cupa disarmonia mi ha costretto a fissare a lungo il soffitto. Mi è venuta in mente quella frase latina che dice “L’animale è triste dopo il coito” e ho pensato magari fosse tristezza. Io non sento proprio nulla.

     E’ ridiscesa: tutta bella ripulita, elegante, truccata e senza più alcuna traccia di pianto o disperazione, con le valigie in mano. Mi guardava come fossi un insetto. Un istante prima ero il suo lupo, ho pensato, e ora sono ritornato il solito stupido insetto.

Mi ha detto che avrebbe preso le chiavi della casa al mare, che sarebbe andata a stare lì, per un po’. Mi ha chiesto con tono perentorio di non cercarla, di non telefonarle, che aveva bisogno di riflettere. Come se davvero ci fosse ancora qualcosa da ripensare su noi due. L’ho fissata senza risponderle.

Sto ancora sdraiato sul pavimento.  Mi sembra un secolo fa di aver udito il  cancello elettrico aprirsi, ma sicuramente sono trascorsi soltanto pochi minuti.

Lo ammetto. Un po’ mi sento defraudato di quell’energia che si è portata via con sé, ma che si può fare, tocca reagire. Reagisco? Che giorno è? Ah, sì, è domenica, il cielo forse è sereno, forse è grigio, non so. Tutto tace.

     Faccio lo sforzo, nonostante i capogiri, di trascinarmi fino al salone, dove le serrande sono ancora abbassate. Di solito non bevo di prima mattina, ho tanti vizi ma non questo. Decido comunque di afferrare nel buio una bottiglia di cognac. Non vado a prendere nemmeno il ghiaccio. Lo porto alla bocca. Fa schifo. Lo sputo sul tappeto.

     Forse è meglio se mi sdraio sul divano, tanto non ho nulla fare. Non sarebbe male riaddormentarmi, ma in questa immobilità senza fremiti riappare, a tradimento, il sorriso intelligente e saggio di Antonio.

     Mi aveva messo in guardia anche lui, molto tempo fa, con la sua solita sagacia, lui che non ha mai avuto lo sguardo miope e che sapeva sempre tracciare gli scenari così come si sarebbero davvero presentati, anche a distanza di anni.

Mi aveva detto queste parole, riguardo la storia tra me e Sofia: «Tanto non durerà, Lorenzo. Sempre che non tu non sappia nascondere, o magari vincere, il tuo vizio più grande».

«Quale vizio?», gli avevo domandato, sorpreso.

«Quello che alla fine ti rovinerà: l’accidia».

Paola Musa è romanziera e poetessa. Ha Pubblicato i romanzi “Condominio occidentale” (2008) e “Il terzo corpo dell’amore” (2009) per Salerno editrice; “Quelli che restano” (2014), “Go Max go” (2016) e “L’ora Meridiana” (2019) per Arkadia editore. Dal suo primo romanzo è stato realizzato un film per Rai 1 (“Una casa nel cuore”), con protagonista Cristiana Capotondi.

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