Quella domanda la feci la prima volta a suor Caterina:
«Perché siamo nati?»
La risposta fu pronta e chiara:
«Per lodare Iddio».
Volevo bene a suor Caterina. Quando invece di stare fermo nel banco, con le mani conserte dietro la schiena, mi alzavo e facevo il buffone, lei mi chiamava vicino a sé e metteva le sue mani sopra le mie. Cosa mi diceva? Non ricordo. Io di solito chiedevo se potevo andare al gabinetto. Mi accompagnava la bidella, che restava fuori della porta. Il gabinetto era buio, sul pavimento si scivolava, io avevo paura d’infilarmi coi piedi nella buca che era nel centro di quello stanzino stretto, alle pareti del quale cercavo invano di puntellarmi allargando le braccia: ma allora le pareti si allontanavano fino a scomparire. Il puzzo mi stordiva. Niente di paragonabile, comunque, all’angoscia che mi prendeva all’asilo Montessori (modernissimo, mi disse poi mia madre, con giochi di tutti i tipi a disposizione dei bambini: possibile?), dove arrivavo strusciando i piedi per terra, strascicato per un braccio da mia madre e per l’altro da mia nonna. «Povero bimbo, dove ti portano», dicevano i passanti.
La domanda sul senso della vita continuai a farla. Nessuna delle risposte fu più esauriente di quella di suor Caterina. In genere erano oscure, certe volte tremende. C’era il Fascismo. In prima elementare mi fecero giurare: «Nel nome di Dio e dell’Italia, Giuro!, di obbedire agli ordini del Duce, e di servire con tutte le mie forze, e se necessario col mio sangue, la causa della Rivoluzione Fascista». Non riuscivo mai a pronunciare bene il giuramento, tanto che il Federale e la Direttrice si spazientivano. Ma cos’era quello che dovevo fare col mio sangue? Poi mi dissero che il sangue dovevo versarlo per la Patria (anche per il Duce, ma questo mi pareva lo dicessero con minore convinzione); in parole più chiare, dovevo essere pronto a morire. Il senso della vita, quindi, era quello. Mio padre aveva fatto tutta la Grande Guerra e aveva cercato di non farsi ammazzare; per fortuna c’era riuscito: l’unica cosa buona, diceva mia madre, che era riuscito a fare. Quindi, pensavo io, mio padre non conosceva il senso della vita; cioè non sapeva per quale ragione siamo venuti al mondo. Mia madre pareva saperlo, perché lei andava in chiesa, ma, sentendo come litigava con mio padre, sembrava che anche lei se lo fosse dimenticato, o perlomeno che non lo avesse più molto chiaro.
Io, dunque, non sapevo quale fosse il senso della vita e quale fosse il mio dovere, e per questo fui fucilato. Non sul serio, evidentemente: per gioco, ma mi fece impressione. Ai giardini pubblici una banda di ragazzi più grandi di me aveva organizzato il gioco della guerra: il più praticato allora, tra il ’40 e il ’43. La guerra era contro un’altra banda di ragazzi, dei quali uno lo conoscevo. Accadde che questi mi riconobbe e mi chiamò, io risposi, anzi mi avvicinai a lui e per un momento mi mescolai a quelli della sua banda. Dai miei camerati fui accusato di tradimento e sottoposto a processo. Per il tradimento c’era la condanna a morte. Mi condannarono e fu formato il plotone d’esecuzione. Alla Befana fascista era stata fatta la distribuzione dei regali: a tutti i maschi era stato dato un moschetto, di quelli da caricare coi fulminanti.
«Per i traditori la fucilazione è alla schiena. Al muro!».
Con una certa brutalità, il comandante mi prese per le spalle e mi mise con la faccia contro il muro.
«Caar…ricat!»
«Puun…ntat»
«Fuoco!»