Leonardo Bonetti

Fiction – Un treno perduto

Il treno è partito da Roma alle 7.15 con mille passeggeri a bordo. Ho avuto modo di sedermi accanto al finestrino e guardar fuori senza capire dove fossi, come sempre mi succede prima di partire. Finché l’ETR s’è mosso appena, insensibilmente. E da allora l’andante di Chopin ha ripreso a tormentarmi. Ciò che ti insegnano a tredici anni non si cancella in una vita; e imparare a suonare Chopin partendo dalla coda è stato un modo come un altro per prendere coscienza di me stesso. Così, ogni volta che devo preparare un concerto, osservo questo metodo con scrupolo. E così farò stasera in pubblico. Lo considero il modo migliore per chiudere una carriera. Anche se non mi illudo che portare alle estreme conseguenze l’insegnamento di un maestro possa davvero liberare dalla schiavitù. Il pianoforte gira al contrario, per me. E ci metto sempre un po’ prima di focalizzare che qualcosa si muove davvero. È il mio corpo a rendersene conto per primo. Così da quando il treno è partito, per me procede all’indietro, sorrido.

Fuori dalla stazione va sulla campagna a perdita d’occhio, lanciato nella sua corsa. Abbiamo passato le montagne affondando in una galleria, ma è da quando ne siamo usciti che la luce è diventata fastidiosa. Il treno un ETR 500 n. 1 op. 55, treno in fa minore, il mondo a correrci incontro come un forsennato.

Seduto di fronte a me un uomo calvo che armeggia al computer; un altro impegnato a telefonare, il vicino, a guardar fuori come se attendesse la soluzione a una sua particolare angustia. Ha baffi e barba che esasperano la strana forma della sua testa. Ne sono attratto quanto respinto e spesso mi sorprendo a osservarlo con ripugnanza.

Passati appena pochi minuti il personale di macchina dà il benvenuto ai passeggeri; il treno ha ripreso a muoversi con lena. È diretto a Milano, Sala Verdi. Banchina e binario davanti ai botteghini, sorrido. Treno dalla marcia serrata, fiore all’occhiello delle ferrovie. Treno che suona a rovescio, diretto per Milano o chissà dove.

Il personale di bordo, all’altezza di Orte e d’Orvieto, si mostra cordiale, profumato come sempre, in grado di consigliare il viaggiatore sulla coincidenza più opportuna; ma poi scompare lasciando la carrozza alla sua inerzia.

Finché ad Arezzo succede finalmente qualcosa: la carrozza, scossa da un’oscillazione, cade nell’ombra e il treno decelera all’improvviso. Il tipo calvo, particolarmente impaziente, impreca contro il finestrino. L’altro, protetto dagli auricolari, indica in lontananza gallerie immaginarie.

È necessario aspettare un quarto d’ora per tornare a correre spediti e leggeri. Come se il calo di tensione fosse alle nostre spalle. Finché il tipo con la radio, incollato all’apparecchio, incassa la testa commentando la smorfia dell’amico. Ogni cosa, sul treno, ha smesso di funzionare; tranne questa corsa fredda, contraria.

Così, mi domando, siamo davvero diretti a Milano? O dove? I cavi dell’alta tensione spruzzano faville sotto la spinta di questa macchina di ferro, furiosa.

Questo contenuto è riservato ai soli membri di Annuale Online
Accedi Registrati.
Print Friendly, PDF & Email
Invia una mail per segnalare questo articolo ad un amico