A cura di Loredana Rotundo con Antonella Borghi, Attilio Fortunato e Roberta Vespa.
Il 20 febbraio Robert Altman avrebbe compiuto ottantanove anni. Era nato il 20 febbraio 1925, ed è morto il 20 novembre 2006 a Los Angeles. Uno dei più grandi registi del cinema americano e probabilmente del cinema mondiale della seconda metà del ‘900. Ha cambiato tutto. Ha cambiato la lingua del cinema, ha cambiato la struttura narrativa, ha creato una vera e propria “famiglia” di attori, artigiani, scenografi e sceneggiatori, che lo hanno accompagnato e seguito per lunghissimi periodi della sua vita e della sua carriera, o addirittura per tutta la vita. E tutto ciò lo ha fatto con trentotto film per il cinema, e una quantità assolutamente sterminata di regie televisive. Regie televisive che vanno da quelle degli esordi, Altman ha cominciato a lavorare molto giovane, a metà degli anni’50 al di fuori dal cinema ufficiale hollywoodiano, e ha diretto di tutto: dai western della serie televisiva Bonanza, ai film televisivi di guerra, fino ai thriller della serie Alfred Hitchcock presenta.
Tutte serie televisive dirette fra i primi anni ’50 e i primi anni ’60, per poi arrivare a realizzare dei progetti raffinatissimi e assolutamente all’avanguardia come la serie televisiva, ormai diventata di culto, Tanner ’88 (undici puntate girate nel 1988 per un allora quasi neonato HBO, uno degli attuali canali televisivi via cavo più importanti), il cui protagonista, Jack Tanner, è un candidato democratico alle primarie presidenziali americane. Il protagonista, uno degli attori della sua squadra fissa, dall’aspetto kennedyano di nome Michael Murphy, diventò molto famoso, lavorando oltre che con Altman, nel ruolo dell’amico/nemico di Woody Allen in Manhattan. Jack Tanner nella serie va in giro con il suo staff e con i suoi sostenitori, costruisce gli uffici per la sua campagna presidenziale, va in giro con striscioni, spillette e volantini e si mescola con quella che era veramente la campagna delle primarie del 1988. Ci caddero in molti, non solo gli spettatori, non solo il pubblico della campagna, ma anche parecchi politici. Quindi nel 1988 Altman e la HBO inventarono un falso reality, un mockumentary televisivo divenuto di culto.
Altman fra gli anni ’60 e il 2000 ha raccontato l’America, ha raccontato soprattutto l’America che stava cambiando, ha raccontato il crollo di quello che era allora l’ingombrante sogno americano e l’ha raccontato come molti altri grandi autori emersi negli anni ’70 in America. Dal punto di vista linguistico lo ha raccontato meglio di loro, perché è stato più estremo. Proprio perché a differenza di Scorsese, Coppola e Spielberg è stato più radicale, Altman non ha lasciato eredi, non ha fatto scuola. Gli anni ’60 e ’70 sono stati due decenni di profondo cambiamento in America e di disorientamento della società e della cultura. In quel periodo Hollywood è in crisi già da molto tempo, già dagli anni ’50, prima di tutto per l’enorme concorrenza della televisione e anche perché le nouvelles vagues in giro per il mondo stanno cambiando il cinema e l’industria cinematografica americana non riesce a stare al passo di queste nuove correnti e del bisogno di realismo del pubblico. In conseguenza di ciò sorgerà la New Hollywood, con l’esordio di coloro che diverranno i grandi cineasti americani dalla metà degli anni ’70 e tuttora in attività. Tra questi si colloca Robert Altman, uno dei maestri della cosiddetta New Hollywood, il cui nome diviene famoso nel 1969. In realtà ha già diretto tre film. Era stato a Hollywood da giovanissimo nel 1945 al ritorno dalla guerra e fu da questa rifiutato. Venne quindi invitato a Kansas City per dirigere documentari industriali. Provò di nuovo a tornare ad Hollywood ma non gli andò bene neanche questa volta, e finalmente, nel 1957, un amico gli offrì di dirigere un documentario su James Dean, morto appena due anni prima, nel 1955. Quando Hitchcock vide il documentario lo chiamò per dirigere gli episodi della serie televisiva Hitchcock presenta. Fin dall’inizio il rapporto con Hollywood è un rapporto di amore e odio che Altman non riuscirà mai a superare. Il secondo film che dirige, Quel freddo giorno nel parco, è prodotto da una società indipendente.
Robert Altman. C’è sempre un’epidemia di qualche tipo di film. In altre parole, se un film ha successo, viene subito copiato da tutti, per questa ragione quando Lo Squalo ebbe successo, tutti volevano fare film con animali meccanici. Ora, dopo il successo di Guerre Stellari tutti vogliono fare film di fantascienza. Per i produttori non fa differenza che si tratti di fantascienza, di storie poliziesche, di film di guerra o d’amore, qualunque sia il genere di film, quello che conta per loro è che faccia soldi. Perché loro amano solo il denaro, non amano il cinema, se ne fregano del buon cinema e se ne fregano di fare buoni film.
Nel 1969 succede però qualcosa, il suo agente gli offre di dirigere quella che sembra una commediaccia militare ambientata in Corea durante la guerra. Perché la Corea? Perché in quegli anni, di lì a poco le cose cambieranno, non si poteva parlare del Vietnam, ma ovviamente dietro la Corea si celava il Vietnam e tutte le sue problematiche che portavano in piazza milioni di persone. Il film M*A*S*H è ambientato in un ospedale militare in Corea, molto vicino al fronte ed è pieno di una miriade di personaggi assolutamente incredibili, folli, quasi tutte vere e proprie caricature, in realtà dei disperati che non ne possono più di una guerra assurda. Medici, comandanti, infermiere, il cappellano militare, attendenti, tutti poveri disperati, che mettono in ridicolo qualsiasi concetto legato alla tradizionale etica militare del film di guerra hollywoodiano. Nella variegata miriade di personaggi, il più assurdo di tutti è la radio da campo che trasmette in continuo, mescolandole senza logica, notizie, ordini di servizio, musica, quiz, barzellette, annunci dei titoli dei film che verranno proiettati alla sera. Altman raccontò che quando dovette scegliere l’annunciatore della radio da campo, cercò all’interno della troupe la persona che aveva maggiori difficoltà a leggere. Costui si impappinava in continuazione, non riusciva a tenere il filo di tre parole consecutive, e ciò funzionò molto bene come colonna sonora del caos di questo ospedale di folli. Inaspettatamente, M*A*S*H vince la Palma d’Oro a Cannes nel 1970. Fu un trionfo anche per i critici americani, ma in Italia la reazione fu di disorientamento, in quanto per la visione della critica italiana dell’epoca mancava una cosa fondamentale: un impianto ideologico identificabile. In realtà M*A*S*H è un film governato dal caos, in cui però si rivelarono due grandi attori: Eliott Gould e Donald Sutherland. Altman raccontò che il successo del film non arricchì nessuno, lui divenne molto famoso e l’unico che ne trasse un qualche beneficio economico fu il figlio quindicenne di Altman, Mike, che aveva scritto “Suicide is Painless”, la canzoncina che è il tema del film e che divenne poi sigla della famosissima e interminabile serie televisiva tratta da M*A*S*H. Altman non ebbe mai nulla a che fare con quella serie.
Partendo da questo film e costruendo una successione di prodotti molto eterogenei, Altman nei cinque anni successivi ripercorre i generi classici del cinema hollywoodiano, i generi quindi della cultura americana stessa e del modello di vita americano che si era imposto in tutto il mondo occidentale. Altman scompone questi generi e ne evidenzia le contraddizioni. Attraversa e critica il genere fantascientifico con il film Anche gli uccelli uccidono del 1970, storia di un ragazzino che impara a volare all’interno dell’autodromo di Houston; con il film I compari del 1971 si introduce con un linguaggio poetico all’interno di un genere western che non ne aveva mai conosciuto il sapore, Warren Beatty e Julie Christie sono i meravigliosi protagonisti, meravigliosi in tutti i sensi, di un’epica western i cui eroi sono l’uomo qualunque e una prostituta affarista dal cuore tenero. Come dire un’epica senza eroi, con una colonna sonora di Leonard Cohen rimasta nella storia del cinema. Nel 1973 verrà poi il Lungo addio, tratto dal romanzo di Raymond Chandler con un Philip Marlowe interpretato da Eliott Gould; poi un’incursione nel gangster movie nel 1974 con Gang, ambientato nel midwest della Grande Depressione: una sorta di Gangster Story intriso delle atmosfere polverose e white trash delle immagini dei grandissimi fotografi della Farm Security Admnistration1, apparentemente molto simile al pur grande film di Arthur Penn, ma tutt’altra cosa rispetto a Hollywood. Due grandi interpreti, Keith Carradine e Shelley Duvall, che compariranno più volte nella produzione altmaniana.
Nel 1975, realizza il capolavoro del cinema americano degli anni ’70: Nashville, in cui, probabilmente per la prima volta nel cinema mondiale, Altman applica una struttura narrativa a treccia che pare direttamente mediata dall’altrettanto straordinario New York (Manhattan Transfer) di Dos Passos. Nel film si intrecciano le vicende di ventiquattro personaggi che partecipano al festival della musica country di Nashville. La musica più tradizionalmente americana, o degli americani più legati alla loro tradizione musicale del midlle west, con una struttura narrativa assolutamente inconsueta, certamente non tradizionale.
Con Nashville, Altman traccia il suo più grande affresco, da molti considerato il più importante romanzo americano della seconda metà del ‘900. Nashville dura più di tre ore, ed avendo a disposizione un girato sterminato, per tutta la vita Altman ebbe la speranza di riuscire a produrre con questo girato una mini serie televisiva. Ma, e anche questo torna a “merito” dei grandi network televisivi, non ci riuscì mai. Nashville è l’espressione più felice di quella che è stata definita la “famiglia Altman”, una famiglia composta non solo dalla moglie e dai figli (che lavorano con lui soprattutto sulla musica e sulla sceneggiatura), ma anche da un’infinità di collaboratori e attori che amando Altman lo seguiranno sempre nei suoi progetti nei decenni successivi. Altman diventa quindi il più grande, e probabilmente fino ad oggi l’unico, re della narrazione corale. Lo sguardo di Altman sui ventiquattro personaggi di Nashville, personaggi spesso cinici e di contenuto umano molto sottile, manifesta comunque ancora quella pietas, quella comprensione che Dos Passos in Manhattan Transfer si era già messo alle spalle, in questo dimostrandosi più legato alla tradizione del romanzo ottocentesco che a quella del romanzo del novecento. Dichiarando anche però, e non è un difetto, una sorta di ritardo del cinema nei confronti della letteratura.
A seguire verranno Buffalo Bill, Tre donne, Braccio di Ferro e Un matrimonio, film in cui compaiono Vittorio Gassman e Gigi Proietti. Alcuni di questi film non avranno successo né di pubblico né di critica rispetto alla sua opera indubbiamente più forte dei cinque anni precedenti. Hollywood non è più la New Hollywood, e Altman la abbandona per la East Coast, dove inizia a fare una sorta di “cinema da camera”, con location estremamente limitate, pochi personaggi e in genere basato su testi teatrali contemporanei. È il momento di Jimmy Dean, Jimmy Dean e di Secret Honor, monologo di Philip Baker Hall, componente della cosiddetta “famiglia Altman”, che interpreta il Presidente Nixon nel giorno in cui deve abbandonare la Casa Bianca. Chiuso a chiave nello Studio Ovale, se la prende con i ritratti dei padri della patria appesi alle pareti e con la foto della madre. In quel periodo Altman proverà anche l’Europa, ma non andrà bene.
Molti all’inizio degli anni ’80 lo danno per finito. Poi succede qualcosa. Il suo agente gli propone un film tratto dal libro di un giovane autore che si chiama Michael Tolkin, The Player. In Italia uscirà con il titolo I protagonisti. È un libro e un film che parla di Hollywood e ne parla malissimo. Nessuno voleva prendersi questa patata bollente, nessuno vuole girare un film tratto da questo libro, ma Altman accetta la sfida. Inaspettatamente, le star hollywoodiane del momento si attaccano al telefono per fare anche solo una comparsata in questo ritratto al vetriolo della comunità hollywoodiana degli anni ’80. Tutti ne parlano come del suo grande ritorno. Altman si sfogò in maniera ironica con queste parole:
Robert Altman. Ogni maledetto settimanale che mi capiti in mano parla di questo film come del mio “ritorno”. Questo è il mio terzo ritorno. Quando accidenti sarà il prossimo? È piacevole, ma sapete cosa succederà dopo? Che la pagherò. Ma io lo so, so che queste sono le regole del gioco, e mi sta bene. Non sono arrabbiato con Hollywood, non sono andato in esilio. Strimpello semplicemente nell’angolo dove loro, i produttori, gettano qualche monetina in modo che io possa fare il mio lavoro.
Il film è un grande successo e gli consente di girare il film che lui voleva veramente fare. Un anno dopo girerà America Oggi. Anche questa era una scommessa che sembrava assolutamente impossibile.
Intervistatore. Il ritratto che fa della società americana è molto cinico, molto duro, molto violento. È quello che lei vede ogni giorno?
Robert Altman. Non si può dire che non sia vero. Certo è un’immagine dura. Ma è la realtà. Non ho fatto un film per dire cosa dovrebbero essere gli americani, ma che cosa sono.
America Oggi è tratto da nove racconti e da una poesia di Raymond Carver, l’autore che tutti sostenevano fosse intraducibile nel linguaggio cinematografico. Qui i personaggi sono una sessantina, e si può considerare una sorta di Nashville di fine millennio. Una serie di storie incrociate di persone comuni, normalissime, tutte inconsapevolmente ciniche, tutte infelici, che vagano per una Los Angeles continuamente battuta da elicotteri che spruzzano insetticida e scossa improvvisamente dal terremoto. Un film molto malinconico, ma ancora denso della pietas tipica di questo autore. Ancora nella tradizione ottocentesca in qualche modo, ma di lì a poco, nel giro di sei anni, Paul Thomas Anderson, ispirandosi proprio alla struttura narrativa tipica di Nashville e di America Oggi, produrrà il film che finalmente concluderà il millennio gettandosi alle spalle, come già Dos Passos aveva fatto con New York nel 1925, quella pietas che ha sempre caratterizzato lo sguardo di Altman. Magnolia.
Da qui in avanti Altman continua a girare quello che gli piace, e girerà non solo in America ma anche in Europa. Il suo ultimo film, una sorta di Nashville pacificato, è realizzato da un uomo ormai ottantenne su qualcosa che Altman ha sempre amato molto: la radio, e attraverso di essa la musica folk, il country e in definitiva la conclusione della vita. Il film si chiama Radio America, ed è scritto e interpretato da Garrison Keillor, autore e conduttore di un programma radiofonico molto popolare in America, “A Prairie Home Companion”, che è anche il titolo originale del film. Si ha qui il ritorno di molti attori altmaniani, come Lily Tomlin, che lo ha accompagnato attraverso tutta la sua carriera e di divi come Meryl Streep e Kevin Kline. Il film è ambientato nello studio in cui si registra questa trasmissione radiofonica, ed è attraversato dalla presenza di una figura inquietante e dolce allo stesso tempo, una donna bionda che a posteriori potrebbe aver rappresentato per l’autore l’angelo della morte. Prima dell’uscita del film Robert Altman muore.
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- La Farm Security Administration era un centro di committenza fotografica voluta dall’allora Presidente Roosevelt nel 1937 per documentare e per informare l’opinione pubblica della grave recessione agricola che in quegli anni dilagava in America. La Farm Security Administration fu operativa fino al 1943 e, oltre ad aver suscitato grande scalpore per la povertà estrema che le immagine ritraevano, contribuì alla nascita di una nuova corrente di fotoreporter, tra cui, solo per citarne alcuni: Arthur Rothstein, Gordon Parks, Dorothea Lange, Todd Webb, Ben Shahn, Carl Mydans e Walker Evans. N.d.R.