Poco prima della sua morte all’età di ventisette anni il 18 settembre 1970, Jimi Hendrix disse all’amica Colette Mimram che non gli rimaneva molto tempo. Era venuto a saperlo da una indovina in Marocco, e credeva alla previsione. Hendrix, che era cresciuto senza un soldo, poteva guadagnare 14.000 dollari al minuto suonando la sua chitarra Fender Stratocaster al Madison Square Garden, ma non riusciva a trovare un minuto di pace. Era distrutto dal comportamento predatorio del suo manager Mike Jeffrey, un ex funzionario corrotto dell’MI51. Gli studenti radicali gli chiedevano di suonare gratis; le Pantere Nere cercavano di spingerlo a dar loro “sostegno”. Era stato assolto per possesso di eroina in Canada ma doveva far fronte a una causa per il riconoscimento della paternità a New York. Stava lavorando a un nuovo disco ma doveva essere costantemente in tour per finanziare l’Electric Lady, lo studio che stava costruendo sull’Ottava Strada Ovest. Benché notoriamente galante, aveva iniziato a picchiare le sue amanti, una delle quali dovette essere ricoverata di corsa al pronto soccorso dopo che lui le aveva tirato una bottiglia in un accesso di rabbia alcolica. Era stanco di essere una rockstar: desiderava improvvisare nei piccoli club e studiare composizione, in modo da imparare a leggere la musica, forse desiderava scrivere per un’orchestra. Ma Hendrix ebbe un tipo di carriera che non consentiva interruzioni.
In un recente documentario su Hendrix per la serie della Pbs American Masters2, I Hear My Train A Comin’, Colette Mimram dice di essere rimasta shoccata dalla nonchalance con cui egli predisse la sua morte, ma dice anche che non avrebbe dovuto esserne sorpresa. I testi di Hendrix descrivevano la vita come una gara contro il tempo. Egli si immaginava «vivere in fondo a una tomba» e si chiedeva se sarebbe sopravvissuto il giorno dopo o se – come cantò in “Purple Haze”, il suo maggior successo – domani avrebbe potuto essere «la fine del tempo». «La storia della vita», scrisse poco prima di morire, «è più veloce di un battito di ciglia».
Il dopo vita, comunque, può andare avanti per sempre se sei una leggenda come Hendrix. Non solo egli ha ricevuto un tardivo riconoscimento da American Masters, ma – o meglio gli eredi, la Experience Hendrix LLC – ha sfornato un certo numero di “nuovi” dischi nell’ultimo anno (questi variano dall’elettrizzante performance del Miami Pop Festival del 1968 ai disarticolati scarti della compilation People, Hell and Angels). Hendrix è anche “autore” di una nuova biografia, Starting at Zero, messa insieme raccogliendo riflessioni diaristiche, lettere e interviste. Starting at Zero è stato pubblicato senza la collaborazione degli eredi, il cui coinvolgimento in I Hear My Train A Comin’ ha costretto il documentario a limitarsi alle più prudenti allusioni ai prodigiosi appetiti di Hendrix per donne e droghe. Anche così comunque, la “biografia” è poco più che un lavoro frammentario, riservato strettamente ai fan di Hendrix, per cui qualsiasi traccia egli abbia lasciato rimane di significato talismanico. La famiglia di Hendrix, che dopo una lunga lotta ha strappato il controllo della sua eredità all’avvocato Leo Branton e al produttore Alan Douglas nel 1995, difficilmente può essere criticata per aver invaso il mercato con i cimeli di Hendrix, anche se questi sono di qualità molto varia. I memorabilia di Hendrix sono un grande affare.
E per buone ragioni. In un periodo molto breve, Hendrix creò un corpo di opere che non ha necessità dell’obnubilamento da nostalgia anni ’60 per essere apprezzato. Ha scritto una serie di canzoni acchiappa ragazze (“Foxy Lady,” “Fire”); non è stato estraneo all’edonismo, o al misticismo tipo figli dei fiori di quel periodo. Ma i suoi testi hanno espresso qualcosa di più profondo del desiderio di una vita senza limiti, o senza genitori. Essi erano una protesta non tanto contro l’autorità quanto contro il fato stesso, nella tradizione del blues che egli introdusse – o reintrodusse – nel rock.
Come ha scritto Miles Davis nella sua autobiografia, «Jimi Hendrix veniva dal blues, come me». Quando Eric Clapton e Pete Townshend, che erano divenuti famosi copiando gli assolo dei vecchi bluesmen neri, sentirono Hendrix suonare, a quanto si dice, si strinsero le mani l’un l’altro, come se avessero visto il fantasma di Robert Johnson3. Sul palco, Hendrix, – un chitarrista mancino che suonava una chitarra per destrorsi incordata per un mancino – si esibiva con una velocità e una destrezza mozzafiato, a volte con una mano sola. Ma non dava mai l’impressione di essere ossessionato dalla velocità. Dalla sua chitarra scaturiva una sequenza di suono così radioso e puro come quella del sax alto di Charlie Parker, o come quella del violino di Jascha Heifetz4. Come ricorderà più tardi Townshend, la chitarra elettrica «aveva sempre costituito un rischio» ma «Hendrix [lo] rese meraviglioso». Non solo il suo suono era estasiante, ma aveva “mud” (fango) dentro, quel carattere intrinseco che fa collocare i maestri da un’altra parte rispetto ai loro allievi.