Andrea Segrè

451 parole: rilettura

 Rilettura, nuova lettura di un scritto, un libro, letto (tanto) tempo prima. Capita a tutti, prima o poi, di rincontrare un testo e, rileggendolo, di provare vecchie e nuove emozioni. Il tempo passa per noi come per i libri, anche se questi rimangono uguali. Straordinario è il valore temporale della parola scritta, e stampata fintanto che la carta resterà il nostro mezzo di lettura. Un tempo che scorre a livello intra e transgenerazionale, ma anche personale. Capita a me con i libri, letti e riletti nel tempo, di Joseph Roth. Un’emozione che si rinnova, continuamente: un esempio di letteratura rinnovabile. Capita a Bruno Damini, mio ospite nella parola “rilettura”, che ci invita a rileggere un autore sempre sorprendente: José Oswald de Souza Andrade. Autore di libri straordinari tradotti anche in italiano ma mai più ripubblicati. Letteratura rinnovabile, appunto: chissà che così non si ritrovi anche un editore disponibile a ripubblicare dei libri ritrovati. Per uscire dalla logica fast-book, che fa ruotare velocemente negli scaffali delle librerie i libri come se avessero una scadenza. Il libro è un cibo assai particolare: nutre la mente e non scade mai. Mangiare è un atto agricolo e dunque colturale. Rileggere, e dunque ripubblicare, sono azioni culturali. Coltura per lo stomaco, cultura per la mente.

 

La battaglia non si perda!

Un “invito all’assaggio”, un atto di devozione anarco-letteraria verso un autore capace di sorprendere a ogni rilettura.

Profondamente colto, anticonformista, contestatore ante litteram, campione tenace dell’anarchismo letterario, José Oswald de Souza Andrade fu poeta, drammaturgo ma soprattutto narratore fra i più grandi e innovativi della letteratura brasiliana del novecento. Autore di acrobatici saggi anti-filosofici, con la pubblicazione de La crisi della filosofia messianica, dove scompaginava e ricomponeva a suo modo marxismo, psicanalisi e neopositivismo, e di teorie letterarie evolutive del modernismo brasiliano con il Manifesto Antropofago, in cui propugnava il ritorno della cultura del suo paese a una ideale purezza tropicalista precedente l’arrivo dei conquistatori europei (“Prima che i portoghesi scoprissero il Brasile, il Brasile aveva scoperto la felicità”).

Oswald de Andrade sicuramente raggiunge i gradini più alti della sua creatività in due opere narrative di difficile collocazione perché buttano all’aria le sbarre di confine fra prosa e poesia, dapprima con Memorie sentimentali di Giovanni Miramare (terminato nel 1923 e pubblicato nel 1924) poi con Serafino Ponte Grande scritto dal 1929 (era di Wall Street e Cristo) all’indietro e pubblicato nel 1933.

Giovanni Miramare attira il lettore in un labirinto epico in prosa e in versi, è un’opera rivoluzionaria e provocatoria nella forma e nei molti linguaggi adottati, sarcasticamente inquadrata così nelle ultime righe dall’autore per bocca del protagonista:

 

– Son già passato attraverso la migliore cernita della critica. Ho letto le Memorie, prima dell’imbarco, al dott. Pilati.

– E lui?

– Il mio libro gli ha ricordato Virgilio, soltanto un po’  più nervoso nello stile.

 

L’apice della sua creazione fu la sua stessa esistenza, vissuta fino in fondo come un romanzo frammentato in stazioni disperse su vari continenti da un vento irrazionale.

Così Giuseppe Ungaretti, che già aveva tradotto la sua raccolta di poesie Pau Brasil  (Albero/Legno Brasile)1 scriveva nella sua prefazione a Memorie Sentimentali, introduzione che da sola varrebbe la riedizione del volume:

 

Non so quale fosse la sposa che aveva impalmato in quei giorni, settima, undicesima oppure ventunesima. Non ebbero più donne Abramo, né Matusalemme né Noè messi insieme, che devono averne godute moltitudini per popolare o ripopolare questo pianetaccio, a differenza del povero Adamo che combinò tutto con la sola povera Eva, guai o miracoli che fossero, dipende dai pareri. Tra la moglie bambina e un quadro recente di Picasso che si baloccava tra le braccia, raccontava storie dell’altro mondo, un po’ come fosse il Padre Eterno o il suo rivale da girarrosto. Aveva vissuto a Parigi, nababbo, non rastaquero2, e vi aveva scoperto tutto, annusato tutte le puzze e tutti gli olezzi, fino al collo ficcato in tutte le trappole, uscendone indenne e bobo da bravo illusionista. Non aveva riportato in Brasile, sposa, come succedeva allora al sudamericano pingue di moneta quanto di corpo, la femmina che l’aveva adescato chissà in quale lupanare di Lutezia, carnosa, di connotati correggeschi già stuzzicante di libidine dal fugace adocchio.

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