A partire dagli anni Ottanta sono uscite diverse autobiografie di terroristi, e il loro numero è aumentato negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila. I principali protagonisti dei cosiddetti “anni di piombo” sono in carcere, costretti a fare un bilancio della loro vita; la lotta armata si è esaurita (salvo un improvviso1 e breve risorgere con le cosiddette nuove Brigate Rosse, responsabili delle uccisioni dei giuslavoristi D’Antona e Biagi) a causa del mutato quadro politico e socioeconomico. La guerriglia in America Latina è stata sconfitta, in Cina è svanita ogni velleità di rivoluzione culturale e il regime ha scelto il compromesso tra capitalismo di stato e liberismo economico, l’Unione Sovietica si è dissolta, in Italia e in tutto il mondo occidentale automazione e ristrutturazione delle aziende hanno ridotto il potere dei lavoratori e dimostrato illusoria la “centralità operaia”. Il sogno prometeico del comunismo, la creazione dell’“uomo nuovo”, si rivela impossibile. Di fronte a tutto ciò, gli ex terroristi, in carcere e poi di fronte al problema di ricostruire la propria vita (grazie a riduzioni della pena sono ormai in libertà o in regime di detenzione domiciliare), si dimostrano per lo più incapaci di comprendere la logica che li ha mossi fino al momento in cui non hanno potuto più nascondere a se stessi la definitiva sconfitta. I loro scritti autobiografici, nonostante raramente si segnalino per la qualità della scrittura e spesso i loro autori ricorrano nella stesura all’aiuto di un esperto, sono utili per chi voglia conoscere gli ultimi quarant’anni della nostra storia. L’autobiografia infatti è un genere letterario, e specifica funzione della letteratura è far emergere ciò che è represso perché incompatibile con l’ideologia professata al livello cosciente2.