Francesco Scalone

Fiction – Il trapasso

 

Eccolo lì il nonnino disteso nel suo letto, nella penombra, appena illuminato dalla fioca luce di una candela. L’aria è pregna di un tanfo di medicinali e disinfettante che pizzica le narici. Che brutta cera che hai, nonnino. Sei tutto giallognolo, anzi verdognolo. Sarà bile, fiele, forse qualche umore verdastro che dal fegato ha cominciato ad ammorbarti il sangue. Quel che è, è. Fatto sta che la morte aleggia nella stanza, che si ha come l’impressione di poterla toccare con mano. Il dottore guarda il vecchierello, dritto negli occhi, con espressione greve e severa, e con un movimento della mano lentissimo, teatralmente solenne, gli accarezza una guancia. Che è ‘sta carezza? sussulta il vecchierello. Che a lui le carezze gli hanno sempre messo un certo disagio: so roba frocesca, secondo lui.

Nel mentre che il nonnetto agonizza nel suo lettino, la nuora – una megera dura e nodosa come un pezzo di legno – sta rovistando in soggiorno. Apre cassetti, rivolta tappeti, sfodera divani, ispeziona finanche tra le piante – addirittura ne sradica un paio – s’arrampica sulle sedie per controllare sui mobili. N’do’ stanno i sordi? N’do li ha messi? N’do li ha nascosti? ‘sto taccagno spilorcio! I vil sordi, l’eredità, il denar meschino, la gloria effimera d’un patrimonio liquido e immobiliare già sfumato – anzi, vaporizzato – da svariati anni. Ah! Se la megera sapesse dove sono andati a finire tutti quei sordi, come sono stati spesi, quali bisogne ed urgenze hanno soddisfatto.

In cucina, il nipote del moribondo – Rosicchioni Cesare – sta addentando una rosetta fragrante, imbottita di duecentocinquanta grammi d’una mortadella profumatissima. Che delizia! Che festa dei sensi! Il Rosicchioni è un ragazzone di appena cinquant’anni, sul quintalone abbondante che nella vita ha sempre avuto ed avrà un’unica passione. Magnare. Anzi, veramente avrebbe anche un’altra passione, un altro chiodo fisso. Che sarà poi meglio? si chiede mentre addenta e ingurgita un altro boccone. Medita, riflette con sguardo pensieroso e bovino. Che sarà meglio nella vita? Quale sarà mai la cosa che viene prima di ogni cosa? si domanda ancora, tristemente, dopo aver dato l’ultimo morso, innanzi alle poche briciole rimaste sul tavolo. Poi fissa il frigo. Deve esserci rimasto ancora del pecorino e del salame piccante, qualche olivetta e un vasetto di maionese.

Confessa – sussurra l’anziano prete al moribondo che silente, muto, fissa con occhi spalancati il soffitto. Il nonnino è lì impalato, come uno stoccafisso, sembrerebbe stecchito ma ancora – per ora – non è morto. Soltanto che non ha voglia di rispondere al prete. I peccati? Vuotare il sacco? Proprio adesso? Non se ne parla. Tra un’ora, forse anche meno, potrebbe arrivare il diavolo in persona e portaselo via. Meglio tenere la bocca chiusa su certi fatterelli. Confessa! Salvati l’anima! lo incalza con stizza l’anziano parroco

Intanto un’orda, una fiumana tracimante di gente e parenti sta invadendo casa. La nuora-megera sorride mostrando denti e gengive e a ognuno dice: grazie, grazie che siete venuti, in questo momento qui; e a turno, un po’ tutti rispondono: che brav’uomo, che bravo vecchio, che bravo padre, che bravo vedovo, che onesto lavoratore. La nuora lascia parlare, atteggia il volto ad un’espressione contrita e intanto nel segreto della scatola cranica pensa a loro. Ai sordi. N’do’ stanno? N’do’ li ha messi? N’do’? A furia di pensarci e ripensarci s’è ingrippato il cervello alla nuora, un lavorio continuo, un corto circuito: i sordi, i sordi, i sordi. Qualsiasi ragionamento o pensiero finisce sempre lì. Da ogni angolo della casa sembra arrivare come un luccichio d’oro e gioielli, e ogni rumore, anche minimo – anche impercettibile – le sembra un tintinnio di monete, un frusciare di banconote. Qualcuna delle parenti più anziane piange, qualcun altro attacca con le solite frasi: non siamo niente, su questa terra siamo solo di passaggio, prima o poi tocca a tutti, questa vita è una ruota …

Al Rosicchione Cesare, giunge qualche eco di queste frasi. Già, oggi a me e domani a te, pensa e intanto s’alza e chiude a chiave la porta. Decide di barricarsi. Ci mette dietro un cassettone con  una sedia sopra. Ha appena rinvenuto in frigo un capretto campagnolo sano sano e ha deciso – seduta stante – di farselo al forno. Con le patate. Magari accompagnandolo con due spaghi e con quel buon vinello lambruscato che ha appena trovato in dispensa, che la notte d’agonia del nonno s’annuncia assai lunga e del resto – come sanno tutti – si vive una volta sola.

Il vecchierello è chiuso nella stanza, nel suo lettino d’agonia, con l’anziano parroco che proprio – ha deciso – vuol stargli vicino fino all’ultimo e non l’abbandonerà, dovesse mai ravvedersi poco prima della dipartita. Il vecchierello intanto rantola, smania, si lamenta, sbuffa, impreca, implora, scaracchia, ma … non muore! Egli resiste. Eroicamente e stoicamente, resiste alla morte. E con sguardo vitreo e fronte madida attacca a delirare, a parlare a gran voce e poi anche a gridare. Zinna! Zinna! Grida implorando, drammaticamente e tragicamente, che all’anziano parroco gli si stringe il cuore e sente riempirsi tutto di un sentimento di vera e umana pietà, per questo vecchio che nel momento supremo della morte è ritornato bambino, e invoca la mamma, il latte e il seno materno. In realtà, il vecchierello è ben altro che invoca. Nel delirio, egli sta chiamando Zinna Minca, la badante rumena che tanto l’ha reso felice nei suoi ultimi anni e che un mese fa la sua nuora-megera ha scacciato proditoriamente. Zinna! Zinna! La bella e bionda Zinna Minca dagli occhi cerulei e dalle rotondità perfette che lo accudiva, gli preparava quei buoni mangiarini e al pomeriggio lo scarrozzava giù al parco sulla sedia a rotelle. Che donna! Che tempi felici! Che periodo appagante! D’un tratto il vecchierello si desta dal delirio, e d’un tratto gli è tutto chiaro e capisce, comprende, realizza dov’è e cosa sta per accadergli. Ma non s’arrende e grida ancora una volta, più forte, lucidamente e coscientemente: Zinna! Zinna! Del resto è storia assai vecchia. Amore e morte, decadimento e desiderio irrefrenabile di vita. Zinna, sospira ancora una volta il vecchierello.

Intanto Rosicchione Cesare sta stramagnando. Buono ‘sto capretto, sublime ‘sto vinello, divine ‘ste patatine novelle. Taglia, inforchetta, azzanna, mastica, ingolla, ingurgita e spinge tutto giù, attraverso gli antri gastrici del suo panzone. Ora non ha più dubbio alcuno. È codesta la cosa più buona che viene prima di tutte le cose: la carne di giovine capretto al forno che si sfalda tra lingua e palato, o che ancora rimane attaccata all’osso e bisogna sbrindellare e rosicchiare con pazienza e perizia. Il Cesare arresta per un attimo il lavorio delle mascelle, respira profondamente e poi rutta. Ci sarà almeno un po’ di limoncello in questa schifa casa? si domanda con moderata preoccupazione. Nello stesso istante, dalla parte del corridoio, la nuora-megera assesta un formidabile pugno contro la porta. Apri cornutazzo! ella grida convinta che il Rosicchione abbia trovato l’agognato malloppo in soldi liquidi e spicci. I sordi! I sordi! I sordi! grida mentre tempesta di calci e pugni la porta. Al povero Rosicchione tanto è lo spavento per quell’imprevisto e furioso baccano che va di traverso un ossicino, una magra scapoletta caprina, e adesso è tutto rosso, lì per terra che soffoca.

Poi tutto quel fracasso, quel batter di colpi si spegne. Pace, silenzio. E si spegne pure la fiammella della candela sul comodino e tutto scompare e viene avvolto dalla oscurità più buia e profonda. ‘Sto a mori’, pensa il vecchierello. E così s’apre la porta e ne entra un fascio di luce intensissima e gloriosa. Sull’uscio si staglia la sagoma bellissima di un angelo, alto e snello, dalle maestose e candide ali e dai lunghi e vaporosi riccioli biondi. Il vecchierello è stupefatto, sorpreso, perché lui s’aspettava lo diavolo, era convinto che per traghettarlo nell’aldilà sarebbe venuto Belzebù di persona. E invece … ridacchia tutto contento e ingenuamente pensa: però, un po’ finocchiello, ‘sto angioletto. L’angelo avverte telepaticamente i pensieri del vecchio e si ritrae, scandalizzato da tanta bassa e triviale volgarità. Camperai ancora! Per altri dieci anni! sentenzia, a denti stretti, con cattiveria. Del resto non è venuto mica per il vecchio. L’angelo è disceso per accompagnare nel trapasso quell’altro, il Rosicchione Cesare, il panzone che adesso sta agonizzando in cucina.

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