Ben Calcaterra

Fiction – L’Isola  

Era un mattino soleggiato del primo di Ottobre del 2020, anno a cui avrei smesso di pensare tra tre mesi, salvo imprevisti. Con il Duemilaventuno, l’anno precedente sarebbe stato uno dei tanti alle spalle. Le cose vanno così, una cancella l’altra come niente fosse e il tempo scorre. Eppure qualcosa accadde quel primo di ottobre che l’avrebbe reso indimenticabile, appeso alla memoria come un cartello stradale al suo palo. Al volante della Rubino fiammante, per un caso inspiegabile e non sapendo se giudicarlo un segno della fortuna in assenza di segnali certi, una telefonata era quanto avevo per cercare d’indovinare ciò che mi aspettava.

«Ascoltami bene, Eolo. Sono Giocar 2000. Sono un agente segreto. Il tuo agente, per la precisione. Tienilo presente d’ora in poi.»

Negli ultimi tempi ero stato indifferente a tutto tranne che a me stesso, rinchiuso nelle mie preoccupazioni di salvaguardia della salute trasformatesi in una cattiva abitudine. Giocar 2000, chiunque fosse e qualunque scopo avesse, mi riportava nel mondo di fuori. Le sue ragioni, buone o cattive che fossero, mi lasciavano intendere che era tempo di rientrare nel mondo. Ma cosa voleva da me? E la fuoriserie a cosa serviva? Io l’immaginavo uscita da qualche tabloid, le chiavi lasciate apposta nel cruscotto da un fighetto con un ehi, hai visto cosa si può permettere uno come me, è tua adesso solo per un po’. Uno che ti sfotte senza nemmeno rendersene più conto. Era questo il punto? Mi stavano sfottendo? Il cellulare era squillato all’improvviso, trovandomi impreparato alle parole che squarciavano il silenzio. La voce dell’uomo, impastata e buffa, non era riconoscibile, anche se l’accento toscano era singolare e vagamente familiare. Ma perché diceva di essere il mio agente? E perché dovevo tenerlo presente d’ora in poi? Perplesso, pensai che c’era qualcosa che andava al di là del buonsenso. Cosa c’entravo io in tutto questo? M’ero sempre fatto i fatti miei e non c’era ragione perché qualcuno mi coinvolgesse nelle sue trame segrete. Almeno questo pensavo allora. Non mi sentivo di aver detto o fatto qualcosa per cui meritassi una particolare attenzione da parte di qualcuno, anche se era quello che di fatto stava avvenendo. Ero stato scelto io, non v’era ombra di dubbio, io al volante della fuoriserie rossa ma senza un motivo a me chiaro. Riflettevo così quando mi ritrovai quasi senza volerlo a sbloccare il volante tra le mie mani.

Avrei voluto saperne di più su tutta la faccenda, ma Giocar 2000 mi aveva lasciato da solo a cercare di chiarire i tanti interrogativi. In strada, come tutti si fossero messi d’accordo, non si vedeva nessuno: tutto immobile, un’assenza assoluta di persone e rumori. Nessun segno di vita. Ma questo era in accordo con la nuova situazione a Bologna, la guerra intestina e tutto il resto, la paura che metteva tutti d’accordo nello stare rintanati in casa. Strade vuote, guai a chi s’azzardava a mettere il naso fuori. Nella Rubino la tappezzeria trasudava cattivo odore insieme al calore del mio corpo. Quaranta gradi o più, roba da pazzi! In sosta da non so quanto, in un cortile interno di Via Dante n.13 a Bologna, non sapevo dove dirigermi. Senza un’idea su come ero finito lì e perché, e niente che mi aiutasse a capire, ero come un uomo accecato da due abbaglianti puntati dritti su di lui. Fuori uso. Usai il pugno chiuso per colpirmi la fronte, un modo forse stupido per cercare di riprendermi dallo stordimento. Girai la chiave d’accensione avvertendo improvviso il flusso d’aria fresca del climatizzatore addosso a me, la forza regolata su MAX. Un refrigerio immediato.

Mi voltai su un lato e con la coda dell’occhio vidi qualcosa che usciva dal cruscotto. Il lembo di un foglio sporgeva fuori dallo sportello documenti. Incuriosito, lo estrassi con le punta delle dita della mano libera. Sul primo foglio, in alto e in caratteri maiuscoli, lessi una frase che diceva tanto e niente: CERCA L’ISOLA NOTA A TUTTI. Poco sotto, l’invito si faceva perentorio, diventava comando. Dirigiti dove voglio, all’Isola che ti ho detto. Che sfacciataggine, darmi un ordine così. Insensato e fuori luogo. Cosa s’era inventato questo agente segreto? Cosa gli era venuto in mente parlando di un’isola nota a tutti dentro la città? Era impensabile a Bologna come dentro qualsiasi altra città del mondo, a parte forse Hong Kong con la sua Kowloon. Tu non sei cinese, Giocar 2000, cosa vai blaterando! La mia città, come la maggioranza delle città anche nella tua Toscana, non ha isole se non quelle pedonali, sempre meno pedonali e sempre più ciclabili. Senza considerare che siamo in tempo di guerra e non si vedono neanche delle biciclette. E neanche un ciclista a cui chiedere dove andare. Perciò non raccontarmi frottole.

Doveva essere uno scherzo…

Presi il cellulare e digitai il numero di Giocar 2000, restato in memoria mio malgrado (questo lo pensai dopo). Dovrà darmi delle spiegazioni, per forza. No invece, un silenzio duro, una cornetta ora pietra. Già. Cosa m’aspettavo, che mi rispondesse proprio l’individuo che mi aveva appena riattaccato in faccia? Che ora fosse a mia disposizione per darmi indicazioni su questa Isola con la I maiuscola? Bravo, fosse stato così mi avrebbe chiarito tutto prima, a voce, senza bisogno di scrivere su questi fogli. Non lasciai alcun messaggio nella segreteria telefonica quando la sentii blaterare una disponibilità metallica, neutrale. Non ne vuoi sapere niente di me, è chiaro, è inutile che fingi di essere il mio agente. Va bene, stiamo al gioco, se vuoi. Se sei un amico che vuole ridere alle mie spalle, hai avuto un’idea originale e puoi ridermi dietro, anche se con una guerra in corso non so come tu faccia. Come puoi farlo? È chiara la tua intenzione: vuoi scherzare col fuoco, ti piace questo. Te la prendi con uno come me, appena uscito dall’ospedale e ritornato fuori dentro una guerra. Sei uno stronzo sadico e questo spiega tutto.

Ora mi fai venire un dubbio: e se fosse un’ennesima, ultima ed estrema trappola del 2020? Dopo un intervento al Sant’Orsola di Bologna, salvo per il rotto della cuffia (fortuna che il chirurgo non ha avuto dubbi nel prendere una decisione tempestiva) non è da escludere che debba vincere altre battaglie prima che finisca questo anno disgraziato… con la guerra là fuori, sembra che pericoli e nemici siano sempre in agguato. Non mi posso fidare di questo Giocar 2000. Questo conflitto non dichiarato ha tutti i lati peggiori di una guerra, inclusi quelli più meschini come il tradimento e la vigliaccheria, e la vendetta per scopi personali…ho già perso dieci chili in ospedale, sono debolissimo, la degenza è stata snervante come la minaccia di ulteriori complicazioni sventata in extremis. Alla mercé di chiunque mi prenda di mira, so che chiunque può stendermi “uso ridere”. Basta uno starnuto più forte del solito. Non ho accanto a me a farmi forza neanche l’infermiera carina e paziente del Sant’Orsola, che fortuna averla vicino, una giovane donna simpatica e premurosa. Meglio di un’esorcista nel liberarmi dal male diabolico. Deborah, Debbi per gli amici. Lei, Debbi, ha saputo rincuorarmi nei momenti di sofferenza e abbattimento più forti, mi ha rimboccato le lenzuola, sostituito le flebo e sistemato il vassoio del mangime ospedaliero. A quel povero uccellino accucciato in una gabbia troppo piccola che ero io. Ero bello però, anche così uccellino, merito suo, una padrona amorevole per cui beccavo e cinguettavo entusiasta nonostante il dolore dentro il mio corpo. Le sue parole ferme e scherzose mi accarezzavano mentre alzavo penosamente lo sguardo verso di lei e il sorriso sulle sue labbra alleggeriva perfino i battiti nel mio cuore. Senza la sua presenza i miei giorni di malattia non sarebbero volati via così in fretta. Arrivederci, Debbi, e grazie, la prossima volta che mangiamo insieme non sarò più un uccellino. Un uomo sano. E tu una donna alla mano, noi due una bella coppia al tavolo di un ristorante. E camerieri solleciti nel servirci. La guerra lontano là fuori.

L’aria del climatizzatore mi riportò alla situazione dentro l’auto. L’aria più fresca m’aveva rinvigorito e riuscii a ingranare la prima. Dal retro sentii pervenire strani rumori, come una coda inattesa dell’accelerata, qualcuno che s’era mosso dietro la mia scia. Eppure, escludendo la tappezzeria e il forte odore di fabbrica, nessuna presenza a misura umana lì dentro. L’auto nuova splendeva come un Rubino (non a caso fu il nome che le diedi subito) e la mia sorpresa per il rumore si perse nella risposta del motore e nella sua energia. Un motore gioiello. Ecco, ero come un gioielliere con le mani su un campione di eccezionale valore mai visto prima, estasiato dalla sua brillantezza e allarmato dalla presenza di qualche ladro potenziale. Naturale avere un attimo di smarrimento e confondere i suoni all’esterno per pura suggestione. E questo spiega la mia reazione, di sorpresa prima e delizia poi. La fuoriserie dei miei sogni, quella che non avrei mai immaginato di avere tra le mani un giorno, era uscita da chissà dove proprio per me e io ero sbalordito.

Ritornato lucido, mi guardai intorno. Sentii un altro rumore, questa volta una specie di rimbombo sordo seguito da un bisbiglio confuso. In sottofondo. Manco a dirlo, non c’era nessuno. Eppure non m’ingannavo mai quando si trattava di presenze anche solo appena percettibili come quella, il mio udito era più che affidabile. Uscii dal cortile interno di Via Dante, già verso Piazza Carducci, facendo finta di niente e immaginando di sapere cosa stavo facendo. In realtà seguivo l’istinto, nella familiarità con la piazza in cui avevo abitato per anni. Piazza Carducci, quella sulla destra, conservava dentro di sé un tempo indimenticabile della mia vita nella più lontana delle tre palazzine al numero tre. Casa, dolce casa. Una sensazione di padronanza di me stesso subentrò in me al pensiero del mio vissuto lontano in quella zona meravigliosa della città. Il numero tre rappresentava anni preziosi e irripetibili della mia vita racchiusi nei ricordi. Una traccia incancellabile del passato era presente in quel punto preciso e il sovraffollarsi dei ricordi era più forte di ogni disorientamento. Nei momenti di debolezza, bisogna dirlo, quando hai bisogno di conforto e non hai nessuno vicino, i ricordi più belli ti possono aiutare, una forza sollecita nel riempire con immediatezza il vuoto del presente. Così, incurante di trovare una strada sensata, tanto era ora la mia fiducia in me stesso, lasciai che l’artificio della memoria diventasse nel frangente la mia soluzione per un percorso a dir poco balzano. Eventualmente l’avrei corretto in un secondo momento. Nel mio affetto per quei luoghi, la via del cuore era la pista più naturale da seguire, come per un amante condividere le confidenze con la sua compagna nell’intimità del letto. Strade venute fuori dal cuore di Piazza Carducci, luoghi del mio primo amore.

Certo, non vorrei forzare il paragone delle avventure amorose, ero più un incosciente che un adolescente entusiasta, più un avventuroso Ulisse alla ricerca di Itaca lungo la scia di rimpianti e ricordi e con mille ostacoli contro, che un adulto appena iniziato all’amore. Sentivo l’obbligo di trovare la mia isola a tutti i costi e la scelta abbracciava le ragioni del cuore seguendo la morale dell’avventura. E senza volermi paragonare al grande Ulisse diretto a Itaca, muoversi tra le vie storiche di Bologna senza una guida era come ripercorrere volutamente i lontani giorni felici, quando l’azione seguiva l’intuizione più ingenua e spontanea, libero nel giocare con la mia vita e quella degli altri. Sicuro nella mia integrità. E presi Via Santo Stefano pensando che anche quella strada mi era familiare per vari motivi (lì tante volte mi ero spinto nei miei giochi di bambino), arrivando così alla biforcazione di Via Farini.

Per qualche estemporanea associazione d’idee con il mio passato più recente (si trattava di appena una settimana prima) riconsiderai una notizia letta sul letto d’ospedale. Una giovane donna, nota al pubblico come la psicologa Eleonora Po’, è stata trovata morta nel suo studio di Via Farini.

Un caso tragico. I suoi erano pazienti schizofrenici e bipolari, minacce viventi per se stessi e per gli altri nella loro temporanea assenza di controllo. È probabile che la morta sapesse quel che rischiava, riflettevo nel silenzio dell’auto. La Dottoressa Po’ doveva essere solo l’ultima vittima della follia che lei stessa aveva cercato di curare. E un giorno, fossi ricorso anche io a uno psicologo come lei (non escludevo affatto di doverlo fare), probabile che anche io sarei stato un pericolo per la mia o il mio terapeuta. Ossessioni e dubbi portano l’agire di chiunque sulla soglia di esiti imprevisti e dolorosi e allo specialista non è detto che basti il coraggio dell’esperto per evitarli. Va bene la forza del passato e dei ricordi, va bene la tua conoscenza delle terapie, ma il presente ti chiede anche la forza d’intuire il pericolo e sfuggirlo in tempo finché puoi.

«Dove volete che vada?» urlai nel silenzio della Rubino.

Le parole schizzarono dappertutto come brandelli dell’essere, il rimbalzo sulla tappezzeria nuova della fuoriserie risuonando come una rabbia fine a se stessa. Facendo marcia indietro verso il punto di partenza, le parole si ritirarono in una desolata disperazione, pentite di essere uscite allo scoperto. Inutile cercare uno sbocco all’esterno. E quello che stavo vivendo non era un gioco, non potevo sfogarmi come una volta quel bambino di Piazza Carducci. Era tutto diverso, molto più serio. Inesorabile nel suo procedere solitario.

«Qualcuno vuole indicarmi la strada? Qualcuno vuole aiutare un uomo solo e allo sbando?» bofonchiai spentosi l’urlo, rivolto più a me stesso che a qualcuno che non c’era, eppure sperando si facesse vivo qualcuno sapendo benissimo che non sarebbe successo.

In un caso così, vedete, l’idea di un’isola improbabile che l’ironia di uno sconosciuto aveva indicato come isola nota a tutti (con nessuno in giro per le strade) rasentava la follia. Era una minaccia alla mia integrità mentale. In quale altro modo potrei definire essere messo in gioco compromettendo i meccanismi della ragione, nello sforzo di adeguarli a comandi privi di senso? Era pura follia. Fortuna volle che un senso istintivo di autocommiserazione mi aiutò a rimanere ancorato alla realtà, consolandomi con un povero me, anche questa doveva capitarmi. E, proprio in quel momento in cui mi abbandonavo alla commiserazione della mia sorte, un postino in bicicletta pensò bene di sbucare fuori da una laterale di Via Farini. Un dono della fortuna, un insperato segno della strada che si rianimava. Questa la mia nuova speranza. Tirai giù il finestrino e lo chiamai.

«Ehi, postino! Sai dov’è l’Isola nota a tutti?». Ma lui era già scomparso imbucandosi nell’androne di un passo carraio. Non m’aveva sentito, i pedali rapidi nello scorrere via lontano dalla mia voce. Va’ a quel paese, tu e la posta che porti. Levati di torno, non mi servi a niente! Me la cavo da solo io qui. Figurati. Computer di bordo e smartphone qualcuno li ha già sabotati, era quello che mi serviva. Tu non servi a niente.

Furioso ma pronto alla nuova sfida con l’orgoglio del sopravvissuto, cavalcavo la Rubino come un beduino nel deserto, seguo il mio istinto e al diavolo tutti quanti, quando il rosso del semaforo si frappose tra me e la mia furia. Il rosso più rosso del diavolo stesso. Ebbi così il tempo per riflettere aspettando il verde. Una Bologna deserta nel mattino infuocato. Le vie solite devastate dagli scontri. E un aspetto irreale di edifici e strade: cosa potevo fare io, solo e dannato in un simile inferno? Come superare vuoto e silenzio assoluti in una città con il marchio della paura? Come riprendere a ragionare con freddezza? Nessuno in vista, le strade pericolose, e il postino sparito quasi per dispetto. Nessuno in mio soccorso per trovare un’ isola qualsiasi nella mia città. Eppure, me ne avvidi guardandomi intorno, la fortuna era dalla mia. Eolo, puoi stare tranquillo, vedi, non hai nessuno in mezzo ai piedi a ostacolarti. La strada è sgombra senza il solito cretino che passa col giallo diventato rosso.

Partii deciso al primo verde, folgorato da una ipotesi: l’Isola non esiste. È solo un’invenzione, la menzogna di qualche mente folle. La mia presenza qui è uno scherzo di qualcuno, anche se a me sembra cosa fin troppo seria. Ma perché questo Giocar 2000, per qualche motivo suo, vuole proprio me in questa avventura? Questo pensiero m’impediva di accettare lo scherzo come un fatto logico. Era come se qualcuno mi costringesse a imbarcarmi in qualcosa più grande di me. Se è questo lo scherzo, se qualcuno mi vuole umiliare, un motivo ci deve essere. Quando finisce questa cosa gliene dico quattro, se ha il coraggio di mostrarsi.

Era proprio uno scherzo idiota il suo: irretirmi nel mistero di un’isola e nella sua vaghezza. Non sarebbe riuscito a farmi impazzire. Ma tutto questo in fondo era un’ ipotesi, pura teoria se non astrazione paranoica, persistendo il fatto concreto che ero stato scelto io per l’isola nota a tutti. Chi diavolo era questo Giocar 2000, poi. E perché mi scambiava per Nessuno contro Polifemo. O meglio, vedeva in me un uomo sopravvissuto alla furia cieca del mostro nella mia metamorfosi in essere minuscolo capace di cinguettare irridente tra le grinfie del brutale gigante. Un uccellino che sfugge alla morte che tenta d’afferrarlo, e vola via libero fino a scomparire. E allora? Perché questo doveva c’entrare con l’isola nota a tutti? E cosa rappresentava per me questa isola? A meno che… a meno che da uccellino, o da Nessuno a Bologna, una volta volato via dall’ospedale, dover correre sulla Rubino verso l’isola fosse come per Ulisse dirigere la barca verso Itaca. Un’impresa epica, pericolosa ma necessaria. E la mia barca, dopo aver superato l’ostacolo del mostro e dimostrato che l’uomo dalla parola intelligente è più forte di tutto e tutti, avrebbe dimostrato anche che si poteva trovare l’isola inarrivabile seguendo la via del cuore. Una prova di forza per un vero uomo, insomma. Fatti non foste per viver come bruti. E per cosa, allora? Per raggiungere l’armonia? «L’armonia dentro una Bologna devastata dalla guerra», dissi a me stesso. Anche se poi Ulisse, mentre pronunciava le belle parole che Dante gli metteva in bocca, era finito dritto all’Inferno in veste di Nessuno e il suo mondo della parola era sconfinato nel peccato. Soccombere al peccato e alla brutalità della punizione, pur nella nobiltà dell’intelligenza e del cuore, questo era successo. Un paradosso inaccettabile per me. Mi attendeva questa fine, dopo aver cinguettato da uccellino entusiasta sotto lo sguardo comprensivo di Debbi? Uscire dall’ospedale e ritrovarmi condannato per sempre all’inferno della guerra? Un’isola diabolica era comunque l’esito nascosto della mia ricerca? Visto che non era Dante quello che poteva decidere il mio fine e la mia fine (lui aveva già fatto abbastanza decidendo la sorte di Ulisse dopo l’Odissea), avevo qualche speranza. Non sarei stato giudicato buono o cattivo per qualche colpa a discrezione del mio giudice, amico o nemico a seconda delle convenienze di una Divina Commedia. Non avevo colpe di poeta concorrente, io, non ero Omero col suo Ulisse. Pertanto, senza essere giudicato avversario poetico, potevo scoprire al più presto qual era il senso logico e personale dell’isola nota a tutti. Confidare in Giocar 2000 e procedere fiducioso sulle strade di Bologna. Sarei arrivato alla mia Itaca bolognese. Un’isola sfuggente e ambigua, questo era certo, ma almeno non un inferno a cui essere condannato in eterno.

Accelerai. Ancora nessuno per le strade, come prevedibile. Fidati di te stesso e mostra il tuo coraggio, Eolo. Fortuna audaces iuvat. Eccetera eccetera, se il latino significa ancora qualcosa. La fortuna e tutto il resto, e tante belle idee anche se nessuno parla più in Latino. Ti basteranno il coraggio e la Rubino per meritarti anche tu un po’ di fortuna extra latina?

Intanto ero arrivato alla fine di Via Farini. Una voce mi disse di svoltare. Fiancheggiai il Collegio di Spagna, mentre il cuore sussultava e mi diceva guarda e ammira, quelle scritte sulla pietra sono le parole di Cervantes con il suo Don Chisciotte. Queste strade sono la tua Mancha, la fantasia corre sull’acciottolato, un fondo stradale perfetto per Ronzinante e il mulo di Sancho Panza. E tu sei nella Mancha bolognese. La tua avventura avrà dei lati scherzosi, a parte il dramma. Cercali nella commedia che pare tragica, questa tragedia ha anche tanto di comico, se Sancho Panza ride dentro di te. La sua semplicità bonaria è la verità tua e del mondo. Non hai il suo mulo ma fa niente, la Rubino immaginala come un mulo del Duemila, con quattro zampe insolenti che tirano dritto superando ogni ostacolo. Se un oscuro Don Chisciotte (questo ambiguo Giocar 2000) ti vuole trascinare con sé nel delirio dell’isola, sai a cosa credere a cosa no, non ti faranno Governatore di un’isola come Sancho. Pensa solo a trovarla questa tua isola. Deve avere qualcosa in mente per te, Giocar 2000, una cosa importante. Per quanto possa essere per te un Don Chisciotte fuorviante, se sei come Sancho te la caverai alla grande. Buonsenso e buon cuore ti aiuteranno come da ragazzo, con l’attenzione alle voci fuori e dentro di te. Già allora smascheravi le panzanate di qualche visionario che si credeva Don Chisciotte. Giocar 2000 forse non è il primo, e neanche l’ultimo di sicuro. Seguilo senza cadere in qualche trappola o scherzo idiota.

Arrivai così oltre Porta Saragozza, fuori dalla zona “spagnola”. Superandola mi sentii più vicino alla meta nella ricerca della mia Isola. Avevo le idee chiare ora, dopo pensate e intuizioni varie. Ero deciso. Io ero il Nessuno di Bologna, almeno per Giocar 2000, e l’isola era la mia avventura. La mia Rubino era il mulo di Sancho e io al volante ero quello di buonsenso che supera ogni ostacolo.

Lo schizzo della mappa, appena trovata nel cruscotto insieme ai fogli scritti, m’ indicava proprio la zona oltre la Porta, quella dove mi trovavo. Un’area chiamata “zona della parola nota a tutti”. Era illustrata da queste parole: “nota a tutti perché ricorda la parola dei cavalieri erranti, quella delle illusioni di Don Chisciotte, e quella che il tuo Sancho Panza ha dovuto seguire”. Ah, adesso tirava in ballo anche lui Sancho Panza! Giocar 2000, dunque, mi doveva conoscere, meglio di quanto io conoscessi la storia e la geografia della parola nota a tutti a Bologna. Di cui non sapevo proprio nulla. Cosa voleva dirmi Giocar 2000? Che non dovevo seguire l’illusione come Don Chisciotte e non potevo fidarmi della parola dei libri? Dovevo essere come Sancho Panza? Indecifrabile il senso di questa zona della parola nota a tutti, conclusi infine. Avrei dovuto capirlo proseguendo la mia corsa. Una zona sacra, pensavo, non come quella dei cavalieri erranti ma comunque grande al punto di superare il rifiuto logico da parte di Sancho, che in questo caso sono io. Povero me, non bastassero i miei voli di fantasia, adesso devo stare anche al gioco di Giocar 2000.

E questa “zona” come poteva esistere nonostante la devastazione della città per la guerra intestina, come poteva esserci una zona così speciale da salvarmi dall’oblio della guerra…

In qualche modo la mia ricerca, come per Sancho senza bisogno di tirare in ballo Ulisse, aveva i toni di un’impresa epica. Senza libri né mappe, si trattava di coniugare buonsenso e follia, città e isola. Oblio e parola nota a tutti, nonostante la distruzione che osservavo, ma rigenerato dall’amore. Una sintesi eroica. Ma come liberare la ragione dalle secche dell’ira? Non potevo lasciarmi sopraffare dal senso d’impotenza che s’alternava nella mia mente. Non ero Don Chisciotte, ma solo il suo compagno. La parola nota a tutti, questo almeno mi era chiaro, era il trionfo di un valore universale, e occorrevano sicuri punti di riferimento per trovarla. Lucidità e nessuna illusione.

Prima di proseguire, accostai vicino alla Porta. C’era un piccolo parcheggio. Mi venne il sospetto che andando avanti nella lettura del foglio, avrei trovato qualcosa. Magari una relazione tra “la parola nota a tutti” e “l’isola”. Ma la nota che trovai era criptica e non chiariva la cosa. La rilessi per sicurezza.

Devi chiederti non l’isola, ma la parola nota a tutti: qual è? Se lo chiede Dedalus nell’Ulisse di Joyce alla notizia della morte della madre. Prova un senso di colpa. La perdita dolorosa lo porta all’estremo. Qual è la parola nota a tutti? Solo una domanda e nessuna risposta. Trovala tu e avrai la mappa che ti porta dove sai.

Dedalus e la morte della madre. E la parola nota a tutti. Ahimè, non c’era un nesso visibile. Ma nell’antichità Ulisse aveva chiarito che Nessuno era una parola nota a tutti eppure ambigua. Nessuno aveva un significato semplice, eppure complicato per Polifemo. Mostro vittima della mostruosità divenuta ingenua brutalità. Dopo di lui, era venuto Don Chisciotte, per cui la parola dei cavalieri erranti era una parola nota a tutti, realtà evidente delle avventure più sublimi. E chi non lo capiva come lui, andava convinto o punito. Ma Sancho e Dedalus non ci erano cascati. Da brutali si diventa ingenui, la parola nota a tutti, che è semplice e civile per sua natura, si complica accecata da un’ottica selvaggia e confusa. Tutto tornava, in un certo senso, eppure la mia immaginazione doveva lavorarci sopra un bel po’ se volevo eliminare l’ambiguità di questa “parola” nella realtà di Bologna. Nella parola “nota a tutti” nessuno era insieme a tutti. Era questo il paradosso. Tra i Ciclopi e a Dublino, come nella Mancha, la parola nota a tutti di Ulisse e quella dei cavalieri in fondo erano uguali, errando nel tempo e nello spazio. Non avevo dubbi al riguardo. Parola nota a tutti per Ulisse e Dedalus, e parola dei cavalieri erranti per Don Chisciotte, erano apparentate dallo stesso paradosso in movimento. Nessuno e Tutti erano nello stesso spazio, come dentro al Cavallo di Troia, pronti a trasformarsi in una forza invincibile coi favori del buio. Era l’ambiguità paradossale di ciò che è visibile e ciò che non lo è.

E a Bologna? Era uguale anche qui? Restava da capire il nesso tra la visibilità di Bologna e quella della ”zona” della parola nota a tutti. Il mio Cavallo di Troia era davanti a me, nelle vie della città? Era lui l’isola della parola nota a tutti? Non riuscivo a capire. Intanto però sapevo che la mia isola a Bologna doveva essere il luogo di Tutti e Nessuno. Ci si arrivava, è vero, attraverso una serie intricata di passaggi logici, con un Dedalus semantico vero e proprio. Ma ne sarei uscito sbucando in un punto preciso di Bologna che poteva chiarire la mia visuale. Come Dedalus nel suo peregrinare, ma girando tra le strade di Bologna invece che di Dublino. O come Ulisse uscito dal Cavallo gigante. Cosa dovevo ricordare, io? Cosa cercare dentro la guerra, il vuoto e la devastazione della città? Il nuovo Millennio mi aveva lasciato l’involucro vuoto della città, l’attualità del passato senza più un suo senso. Dovevo inventarmi io qualcosa, un presente che ricuperasse il passato dandomi una direzione. Questa “isola nota a tutti”, se originava da Ulisse come finiva nella mia Bologna? Era la mia una breve Odissea dentro l’involucro vuoto di Bologna? E se non c’era “Nessuno” al suo interno, come Ulisse dentro al Cavallo di Troia, allora c’erano tutti e nessuno pronti all’assalto della città! Magari un assalto in senso figurato e ironico… magari uno capace di giustificare la ragione di Don Chisciotte, dei suoi cavalieri erranti e dei Troiani. Evidenza della realtà delle cose visibili come di quelle invisibili, ben distinte tra loro ma ugualmente reali. E l’involucro di Bologna poteva contenere l’isola come paradosso invisibile ma reale. Ma quali erano le sue coordinate nel tempo, se non nello spazio? Il mio percorso da Dedalo, se così si poteva chiamare, era un enigma rinchiuso dentro confini spazio-temporali indefiniti, inimmaginabili. Un labirinto millenario della parola in cui era impossibile trovare una via d’uscita. Un’idea folle e disarmante nel concreto di una città e delle sue strade. Un Cavallo di Troia diventato isola ideale.

Stando alle mie scoperte e a Giocar 2000, il punto logico dell’isola nota a tutti, quello da precisare, era nel presente. Dovevo solo localizzarlo proseguendo oltre Porta Saragozza. Il labirinto portava lì. Pur senza il talento di scrittori illustri e diversi come Omero e Joyce, o lo stesso Cervantes e Dante, lasciando da parte Carducci e la sua Piazza piena di ricordi, l’isola di tutti e nessuno era reale per Giocar 2000 e lui l’aveva individuata. Io la dovevo trovare sapendo che non esisteva davvero, eppure invece c’era. Una realtà nonostante le apparenze. Come Nessuno per Polifemo o i Greci nel Cavallo per i Troiani. Una zona nota a tutti qui, a Bologna. Una visione della città con i caratteri della realtà.

La finzione prevede cose che si collegano tra loro mediante le parole: doveva essere questo quello che intendeva Giocar 2000. Dovevo scavare dentro il paradosso della parola e trovare questa relazione all’interno della finzione. Nella mia realtà personale, trovando in questa l’unica strada certa. La forza dell’immaginazione poteva aiutarmi, anche se c’era il rischio di perdermi, vittima della memoria come Dedalus dentro la “parola nota a tutti”. Senza risposte.

Decisi così di correre nella mia fuoriserie oltre la grande Porta medievale, in una zona esterna alla vecchia città delle fondamenta. Ero guidato dalla suggestione delle parole di Giocar 2000. L’unico collegamento possibile tra amore e oblio, tra cose e parole, era nella parte di città nuova scampata alla devastazione e giudicata ininfluente negli scontri. Mi sarei avvicinato in qualche modo alla verità, per inerzia, arrivando ai contrafforti della collina bolognese a partire dalla strada iniziata in Via Dante. Avrei guardato la città e la sua vita dall’alto, in una veduta panoramica, senza il coinvolgimento delle macerie. Dedussi in una visione improvvisa che questo dovevo fare, che il sogno di un amore superiore all’oblio portava lassù, sulla collina bolognese.

Mi era capitato spesso di vedere la città dall’alto di San Michele in Bosco e di San Luca, ora la vedevo sotto forma di paradosso. Sotto di me c’era il mostruoso Polifemo che aveva cercato di cancellare la storia e l’architettura di Bologna, la ricchezza di storie e influenze di genti diverse. Il mostro cieco della distruzione. Ok, io sono Nessuno e capisco bene il cannibalismo del Ciclope, sono minuscolo dentro la città e la sua forma gigantesca e vuota, le sue innumerevoli case e palazzi e chiese e torri. Bologna non è più la stessa. Eppure da quassù, in questa zona collinare panoramica, la mia vista scorre su secoli di storia e edifici, torri e chiese secolari distrutte dalla guerra e riesco a vedere tutto quello che non c’è più. Le immagini sono scolpite nella retina di ogni occhio come corpi di statue greche. E questa visione del passato mi fa pensare all’isola nota a tutti. Cos’altro può essere questa memoria collettiva di un tempo migliore se non l’isola che tiene in vita il passato nel presente? Un’isola di tutti e di nessuno. Mia. Ma dall’alto delle colline bolognesi, neanche il massimo sforzo dell’immaginazione può trasferire l’idea di zona della parola nota a tutti, precisata nella mappa estratta dal cruscotto, dalla collina fuori Saragozza alla concretezza di un’isola. Sono fissato con la concretezza, purtroppo, la cosa più difficile da trovare per una parola. Eppure ci deve essere, da qualche parte.

Fu a quel punto che qualcosa di veramente strano accadde. Sentii un tic tac provenire dal cruscotto prima muto. Pensai dapprima a una bomba a orologeria, come succedeva in tanti film. L’allarme accelerò i battiti del mio cuore e mi disposi all’abbandono istantaneo della Rubino. Misi un piede sul freno. Una voce mi fermò.

«Cosa stai facendo? Dove vuoi andare? Non sei ancora arrivato a destinazione. »

Chi aveva parlato? Guardai nello specchietto retrovisore e mi parve di vedere qualcuno dietro di me.

«Vade retro, Satana!» esclamai rivolgendomi alla presenza invisibile, chiunque egli fosse. Ma nessuno rispose e nello specchietto non c’era nessuno. Guardai fuori, davanti a me. La strada cominciava a scendere dalle colline bolognesi, dove fare l’amore in auto era stato il mio obiettivo da ragazzo quando ancora non avevo la patente. Chissà perché mi venne in mente proprio questo, e cioè la prima volta che l’avevo fatto in auto con una compagna d’università persa di vista quasi subito dopo il fatto. Certo non era il momento adatto per pensare a sesso e amore. O al giorno in cui avevo preso la patente.

«Sono Nessuno! Urlò la voce. Non l’hai ancora capito? E l’isola nota a tutti è la mia isola, quella dove sconfiggo Polifemo con la sola forza della parola. L’isola di Nessuno. Ma ora tu hai la tua isola, tu sei Nessuno, proprio come me. Anche tu, Eolo: devi solo fartene una ragione.»

«Ma come faccio a cercarla qui a Bologna senza indicazioni precise?»

«Basta seguire la parola nota a tutti.»

«Ancora quella! Siamo al punto di partenza, Nessuno. Non so dov’è concretamente.»

«Invece lo sai. È davanti a te.»

«Cosa vuoi dire?»

«Quello che ho detto. Ciao, Eolo. Ora me ne torno nel mio Inferno. Quello dove mi ha messo il tuo caro Dante.»

Ah, quindi era uscito dall’Inferno apposta per me. Era stato Giocar 2000 a convincere Dante a farlo uscire di lì? Eccomi di nuovo nei pasticci, voglio dire la situazione era ingarbugliata con in più l’eco di un’antica vendetta sulla mia strada. O meglio erano due gli echi: la vendetta di Ulisse sui Proci e quella di Dante su Ulisse, che veniva sbattuto all’inferno con Diomede (chissà perché proprio lui, Diomede, con quel nome che iniziava con “Dio”). Forse una cosa in più la sapevo, però. La parola nota a tutti mi stava davanti, io la potevo “vedere” se non sentire, dovevo distinguerla meglio. E arrivare così all’isola di Nessuno. Forse Nessuno era la parola nota a tutti e la sua “zona” era tutta Bologna sotto di me, non una parte di essa. Un involucro significativo pieno di passato. Ulisse, cioè Nessuno, e Dedalus, don Chisciotte e Sancho Panza: tutti erano nella Bologna sotto di me e insieme formavano una zona ideale ma concreta, ora ne ero certo. Forse era questa la chiave di tutto. Un bandolo intriso di memoria contro l’oblio della guerra e della devastazione. Trionfo della parola sul mostro impotente, parola nota a tutti come Nessuno per tutti i Ciclopi. Una matassa amorosa che vince la brutalità persino nel presente più vuoto e senza Dio. Lo stesso presente di Dedalus alla morte della madre. Uguale al mio.

Ora ricordavo tutto.

«Caro Eolo, ti ricordi com’era bello in Piazza Carducci?»

«Ricordo tutto, mamma.»

«Ricordi che bello il cortile dove giocavi?»

«Non c’era la guerra, allora. Potevamo giocare fin quando volevamo.»

«La guerra fa smettere di giocare. Che brutta cosa!»

«E dire che da piccolo giocavo sempre ai soldatini. E mi piaceva un sacco. Ma era solo un gioco.»

«Ricordo che li collezionavi. Avevi quelli della prima e della seconda guerra mondiale, e Nordisti e Sudisti americani.»

«Erano di piombo, perfetti. Minuscoli e perfetti.»

«Tante volte te li mettevo via io in qualche scatola. Tu eri corso giù in cortile a giocare con qualche amico che ti chiamava da una finestra o dal cortile.»

«Era tutto un gioco allora. Anche le cose serie.»

«Andavi bene a scuola, però. Trovavi sempre il tempo di studiare.»

«Non c’era la guerra, allora.»

Ricordavo tutto, ora. La prima scuola era in Via Dante, le Scuole Elementari Carducci di Via Dante. Ancora lì oggi come ieri, nessuno aveva osato distruggerle. Nomi troppo grossi quelli di Dante e Carducci, una memoria più forte di qualsiasi oblio e brutalità, persino quelli della guerra.

Ricordavo tutto. Mentre scendevo dalle colline verso lo stadio, al Meloncello, ricordavo le partite di pallone con gli amici in cortile, i calci e i pugni quando qualcuno attaccava briga. Eravamo soldatini viventi ma nessuno ci vedeva anche se mettevamo l’uniforme, soldatini che giocavano alla guerra, e poi tolta l’uniforme, a nascondino e al pallone, sempre dentro la nostra parte ingenua. Nello scontro come nell’incontro.

Quando la mamma morì, la guerra allora appena iniziata a Bologna e l’amore stravolto per sempre tolsero ogni ingenuità alla solitudine dei soldatini, ora era tutto serio. Evidente. Ma io non me ne accorsi in tempo. Facevo sul serio senza saperlo, colpevole di un’ingenuità resistente, perciò fui ferito all’addome e ricoverato al Sant’Orsola. Salvo per la perizia non ingenua. E ora questo Giocar 2000 mi faceva giocare di nuovo. Almeno sembrava così, che volesse ridarmi i giochi incolpevoli. E l’isola nota a tutti sostituiva soldatini di piombo e soldatini viventi con o senza uniforme. Era paradossale: ora potevo scherzare sulla morte ed ero uno degli eroi di sempre. Ridevo del mostro come Ulisse con Nessuno, Don Chisciotte con Sancho Panza e Dedalus con i suoi lettori. Guardavo tutto dall’alto. Così capii. Dietro Giocar 2000 si nascondeva una mia vecchia conoscenza. Il poeta sopravvissuto alla guerra giù nella Piazza. La piazza dei miei giochi, intendo. Giocar 2000, il mio agente segreto, era proprio lui, il poeta che non s’era mai arreso all’oblio. Giosuè Carducci, chi altri.

 

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