Stephen Holmes

L’illusione dell’identità

da ''The New York Review of Books''

IDENTITY
The Demand for Dignity and the Politics of Resentment
By Francis Fukuyama
218 pp. Farrar, Straus & Giroux. $26.

THE LIES THAT BIND
Rethinking Identity: Creed, Country, Color, Class, Culture
By Kwame Anthony Appiah
256 pp. Liveright Publishing. $27.95.

 

Tribalismo e senso di appartenenza a un clan sono intrinseci alla vita sociale umana. Eppure la recente ondata mondiale di fondamentalismi, nativismi, nazionalismi e separatismi suggerisce che qualcosa di incredibilmente nuovo è in atto, una sorta di reazione negativa globale alla percezione del fallimento delle società liberali. Un esempio noto, sia in America che in Europa, è il terrore di fronte al reale o minacciato afflusso di immigrati provenienti da culture differenti. Che il presidente degli Stati Uniti trovi vantaggi politici nell’alimentare tali ansie è un altro segno delle difficoltà identitarie dei nostri tempi. Francis Fukuyama in Identity e Anthony Appiah in The Lies That Bind (“Le bugie che ci legano”) condividono un’ammirabile ambizione: cambiare il modo in cui noi vediamo il senso di appartenenza e di integrazione, nella speranza che questo aiuti a sconfiggere l’intolleranza religiosa, il pregiudizio etnico e altre malsane forme di autoconsapevolezza di gruppo, in modo da permettere a individui con tratti ed esperienze dissimili di coesistere pacificamente e di trarne vantaggio vicendevolmente.

Fukuyama ha ragione a rigettare la critica secondo la quale il suo primo libro, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), fosse espressione di trionfalismo liberista. La sua cupa insistenza sull’insignificanza spirituale che determina le società tardo capitalistiche, in cui consumatori atei non hanno nulla di serio per cui vivere, spazza via un tale ottimismo superficiale. Ma egli sottintendeva, paradossalmente, che dopo il collasso del tutto imprevisto del comunismo non ci sarebbero più state sorprese riguardo alla “forma base di governo per la maggior parte del mondo, almeno nelle aspirazioni generali”. Quello che vede nel nuovo libro, ma che non aveva previsto all’epoca, è che la grande diffusione delle democrazie liberali sarebbe durata a malapena quindici anni: “A partire dalla metà degli anni 2000, lo slancio verso un mondo sempre più aperto e libero ha cominciato a rallentare, fino a fare retromarcia”. Le politiche identitarie, conclude ora, spiegano perché la democrazia liberale ha smesso di affascinare la maggior parte del mondo come forma ideale di organizzazione politica e sociale.

All’inizio del libro egli confessa che Identity non sarebbe stato scritto se Trump non fosse stato eletto presidente, rivelando fino a che punto “il nazionalismo bianco si sia trasformato da movimento marginale a qualcosa di molto più rilevante nella politica americana”. Nelle affannate paure degli “irriducibili oppositori dell’immigrazione” che rifiutano qualunque possibilità di dare agli stranieri privi di documenti una chance per avere la cittadinanza, Fukuyama vede un “mediatore” per le esigenze della classe media bianca riguardo il declassamento di status in questa economia globalizzata. Per capire il nazionalismo bianco, argomenta, dobbiamo riconoscere che i rivolgimenti delle sorti economiche individuali vengono spesso vissuti come una dolorosa perdita di status sociale e che la disoccupazione e i redditi in calo, assieme ai fallimenti familiari e all’aumento esponenziale di morti per eccesso di uso di sostanze tossiche[1], fa sentire “invisibili” i cittadini il cui status sociale è in calo.

Dopo aver analizzato alcuni trend dell’economia che crede abbiano alimentato il nativismo xenofobo in Europa come in America, Fukuyama passa a distribuirne le responsabilità. Il multiculturalismo di sinistra si rivela essere il principale colpevole: “Le politiche identitarie come messe ora in atto a sinistra […] hanno stimolato l’insorgere di politiche identitarie della destra”. Senza l’accento positivo posto dalla sinistra sulla diversità, apparentemente, non ci sarebbe stato il contraccolpo del nazionalismo bianco. Trump sembra che non abbia fatto molto di più che aiutare a spostare “l’attenzione per le politiche identitarie dalla sinistra, dove erano nate, alla destra, dove ora si sono radicate”.

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