L’intera tesi del notevole nuovo libro di Simon Head è contenuta nel sottotitolo (Perché macchine più intelligenti stanno rendendo gli umani più stupidi). Esso fa partire la sua analisi dall’osservazione riportata di Adam Smith che la divisione del lavoro in una fabbrica di spilli, mentre fa meraviglie per la produttività (quantità di prodotto per lavoratore), renderebbe i lavoratori così «stupidi e ignoranti quanto è possibile essere per un essere umano»[1]. Ciò sarebbe avvenuto perché nessun lavoratore aveva bisogno di sapere come fare uno spillo, ma solo come fare la sua parte nel processo di produzione di uno spillo. La produzione artigianale stava per divenire una produzione industriale; la produzione industriale avrebbe distrutto le abilità nel lavoro.
Dall’inizio del ventesimo secolo, e dopo la Rivoluzione Industriale, la fabbrica di spilli di Smith è divenuta la fabbrica di River Rouge di Henry Ford. «Quello che funzionava alla Ford», scrisse Charles Sorensen nella sua biografia sugli anni passati con il costruttore di auto, «era la pratica di muovere il prodotto da un lavoratore a un altro finché non divenisse un’unità completa, poi di combinare il flusso di queste unità nel momento giusto e nel posto giusto verso una linea di assemblaggio finale in movimento da cui usciva il prodotto finito»[2]. Il prodotto finito era naturalmente la macchina di Ford. Occorrevano 1,33 ore per uomo (contro le precedenti 12,5 ore) per produrre il Modello T della Ford, ed esse uscivano dalla linea di assemblaggio ogni tre minuti.
Con meno lavoratori necessari per produrre ogni macchina, i salari per lavoratore potevano salire e le ore di lavoro potevano ridursi. Ma poiché ogni macchina era più economica da produrre, il volume delle vendite poteva essere enormemente espanso, così il numero dei nuovi lavoratori impiegati nelle fabbriche di automobili superavano di gran lunga quelli da sostituire. Contrariamente alla paura dei Luddisti, l’automazione stava facendo aumentare l’occupazione, non la stava facendo diminuire. Ma i Luddisti – in origine lavoratori esperti delle Midlands e del Nord dell’Inghilterra che distrussero le macchine tessili tra il 1811 e il 1817 – protestavano non solo contro la perdita di lavori e di salario, ma contro la perdita del talento e del senso di comunità.
Il problema della catena di montaggio era che doveva essere tenuta in movimento, e più era veloce meglio era. Ogni guasto fermava il processo di produzione di tutta la linea. L’esigenza di continuità nella produzione richiedeva un alto livello di controllo manageriale sulle pratiche di lavoro, in altre parole, richiedeva un “management scientifico”. E questa fu l’invenzione di Frederick Winslow Taylor. Il Fordismo crebbe grazie al Taylorismo. Come scrive Simon Head, «in termini politici e sociologici, il Taylorismo può essere visto come la divisione del lavoro spinta alla sua logica estrema, con la conseguente dequalificazione e disumanizzazione dei lavoratori e del posto di lavoro». In seguito il discepolo di Taylor, William Henry Leffingwell, cominciò ad applicare i metodi del management scientifico al settore dei servizi dagli anni ’20 in avanti, e oggi sono applicati quasi ovunque.
Il “management scientifico” è il punto da cui parte Simon Head – e che critica – nel suo bel libro. Head è un giornalista divenuto professore universitario che si è specializzato sull’impatto sociale della tecnologia. In The New Ruthless Economy (2003) egli analizzava la pratica dei call center, mostrando come i digital script[3] richiedessero ai loro operatori un comportamento da robot[4]. Nel suo ultimo libro afferma che la programmazione computerizzata è ora applicata a tutti i principali settori dell’economia manifatturiera e dei servizi.
Il risultato è che i computer in rete, con un programma di controllo allegato, hanno ampliato enormemente «il potere di gestire il lavoro nelle gigantesche multinazionali e … di controllare in modo minuzioso il lavoro dei singoli impiegati o squadre di impiegati». Le loro caratteristiche hanno generato i “Computer Business Systems” (CBS) che hanno colonizzato gran parte del settore dei servizi.
La tendenza dei CBS, argomenta Head, è di scoraggiare l’intuizione e il potere decisionale in una larga parte della popolazione, eccetto che per una minuscola quota di ingegneri e manager altamente pagati, di cui si ha bisogno per attivare e controllare i sistemi automatici. Quello che Head chiama «managerialismo digitale» ottiene questo trasformando i controllati dal management in «rappresentazioni elettroniche» degli esseri umani, «in numeri, parole codificate, coni, quadrati e triangoli che ci rappresentano sugli schermi digitali [dei manager]». Tali rappresentazioni elettroniche sono state applicate in maniera sempre più crescente anche ai management di medio livello, che, privati delle loro tradizionali funzioni di supervisione, sono essi stessi sottoposti a un monitoraggio intrusivo dei tempi e delle performance che una volta essi esercitavano sui loro subordinati.
I tre elementi correlati dei CBS sono: i network di computer (Internet) che collegano «la stazione di lavoro di ogni impiegato o gruppo di impiegati all’interno dell’organizzazione a quella di ogni altro»; «i depositi di dati» che contengono «le quantità gigantesche di informazioni» necessarie per monitorare le azioni degli impiegati «in tempo reale» e controllarli «in linea con matrici stabilite dal management»; e «i sistemi esperti che mimano l’intelligenza umana nel perseguire obbiettivi conoscitivi» essenziali ai servizi personali.
Il discorso di Head ruota intorno alla distinzione tra «processo» e «pratica». Il processo si riferisce a «una serie di operazioni e a come sono in rapporto l’una con l’altra». La pratica si riferisce «all’accumulazione di tacita conoscenza e abilità» che gli impiegati usano nei loro compiti. Nei sistemi automatizzati, «il processo…mette la “pratica” da parte».