Ti fermi per un momento nell’atrio del quinto piano. Attraverso la lamina di vetro l’Hudson River scintilla, costeggiato dai magazzini convertiti, il traffico sulla West Side Highway, e, sulla riva in lontananza, il New Jersey in una silhouette fuligginosa. Trasportata, la tua mente galleggia libera dal motivo che ti ha portato qui. Da quale galleria sei appena uscito? Quale annuncio è stato fatto davanti ai tuoi occhi, e da chi? Tutto è cancellato dallo splendore dell’acqua. Ma ping! Ecco l’ascensore che hai chiamato: appena il tempo di mettere in tasca il dépliant pieno di chiacchiere datoti con condiscendenza dallo studente dietro il banco, prima di uscire sullo sgangherato marciapiede di Chelsea ed entrare in qualche altro portone pochi numeri dopo, salire in qualche altro spazio espositivo postindustriale, e ricominciare tutto da capo.
Tu – il critico d’arte – puoi avere la necessità di ricordare a te stesso che propriamente parlando, non è stato il semplice lavoro che ti ha portato qui. È stata un’ossessione, una fascinazione, qualcosa di simile al destino. Una volta, l’arte ti dava una stretta al cuore, una varietà di opere che sembravano così radiose e autosufficienti come il fiume di oggi dietro la finestra, tuttavia realizzate da esseri umani simili a te. Per amore di questa magia, ti sei abbandonato a questa carriera marginale, da eremita. E l’arte non ti ha esattamente abbandonato. La creatività umana dimostra di essere inesauribilmente varia: c’è sempre la prospettiva di nuove rivelazioni.
Ma per inseguirle, ti aggiri furtivamente su un terreno di caccia che diventa in qualche modo più alieno più ci rimani dentro a lungo. I pacchiani nuovi musei d’ arte, le fiere internazionali d’arte e soprattutto Chelsea, il distretto dove sono ammassate le principali gallerie d’arte di New York, sembrano nascondere e ingannare: il mondo dell’arte che abbracciano è uno schermo dietro il quale l’arte si eclissa. Un’immersione troppo lunga nelle loro chiacchiere senza emozione e nella loro freddezza aggressiva ferisce l’anima. Hai bisogno di prendere aria. Hai voglia di infuriarti e sbraitare.
Dopo circa trent’anni di critica d’arte, Jed Perl confessa di aver vissuto più volte momenti Hudson River, in una pagina in Magicians and Charlatans (Maghi e ciarlatani), la sua ultima raccolta di saggi. Questi scorci sul mondo al di fuori «surclassano qualsiasi cosa appesa ai muri della galleria». Ti arrendi a questi impulsi, e potresti abbandonare del tutto questo tipo di scrittura, come Dave Hickey, un collega critico ugualmente interessante, ha annunciato che stava per fare lo scorso anno. Perl invece è rimasto al suo posto. (I suoi pezzi sono stati a lungo un’istituzione per ‘The New Republic’.) C’è un credo da mantenere, ed è meglio difeso qui a Manhattan, l’isola ombelicalmente collegata alle tradizioni europee che egli ama. Quando il dovere chiama, Perl può avventurarsi all’Art Basel di Miami o tornare in California, la scena dei suoi anni di gioventù, ma la sua prospettiva è stata da lungo tempo convintamente metropolitana. I suoi resoconti avvincenti – a volte sardonici e lirici, meticolosi e intimi in modo disarmante – continuano a rimuovere l’America continentale e le sue preoccupazioni, il lato opposto della finestra e dell’acqua. New York, intricata in maniera unica nella sua storia culturale, è proprio il luogo in cui Perl si può imbattere con più facilità in qualcosa di autentico, ricco di contenuto, una nuova rivelazione immaginativa.
Le possibilità per farlo sembrano affievolirsi, comunque. Tornando nel 2008 dall’inaugurazione del Broad Contemporary Art Museum di Los Angeles, Perl analizza il New Museum sulla Bowery da poco ricollocato, e lo ritiene come me, un «nonluogo». Che è come dire un’altra ambientazione di grandi e freddi interni di magazzino posti dietro una facciata gratuitamente stravagante che dà all’istituzione il suo “logo” architettonico. Queste casuali strutture a forma di scatola sono state costruite per ospitare esibizioni che sono allo stesso modo di scarso rilievo, non tanto opere d’arte ma “trovate”: diventano nulla più che «marchi disegnati per contenere marchi». Perl ne deduce che sta osservando un «fenomeno globale»: che in tutto il pianeta questi nonluoghi stanno sgorgando per esibire acquisti «trofeo» fatti sul mercato dell’arte contemporanea, «teste di tigri» cacciate in una giungla economica notoriamente selvaggia e senza legge.
Ciononostante c’è una certa logica economica dietro questo modello comportamentale. Dave Hickey, sbattendo la porta sulla critica d’arte lo scorso ottobre, supponeva di smetterla con la corte dei manager finanziari: «Tutto quello che facciamo è aggirarci nel palazzo e consigliare gente molto ricca». Perl in modo analogo agita il pugno contro il potere culturale senza briglie che l’élite danarosa ora detiene. Per lui, un uomo come Eli Broad, il navigato imprenditore che ha finanziato l’eponimo allargamento del Museo d’Arte della Contea di Los Angeles ma che ha mantenuto il possesso dei Warhol e dei Jeff Koons in mostra al suo interno, non opera partendo da un sincero desiderio di nutrire lil gusto artistico del pubblico: Broad è semplicemente un «rullo compressore» di egotismo, privo di sensibilità ma determinato a esibire i suoi «acquisiti di lusso».