Nell’estate del 1969, quando la violenza si intensificò nell’Irlanda del Nord, il poeta Seamus Heany era a Madrid. Come ogni altro turista andò al Prado, non proprio, come disse in seguito, «per esaminare le opere d’arte nel tempo della violenza». Trovò, cionostante, che alcuni lavori in mostra di Francisco Goya «avevano la forza di quegli eventi terribili…Tutto quell’orrore si mescolò all’atmosfera di panico e leggermente esaltata di quell’estate in cui gli eventi culminarono a Derry e a Belfast». Trovò il lavoro di Goya «travolgente» e rimase affascinato dall’idea di un artista che affrontava la violenza politica a testa bassa. Nella poesia Summer 1969, scrisse del periodo trascorso nel caldo della città spagnola mentre Belfast bruciava:
Mi rifugiavo nel freddo del Prado.
Fucilazioni del 3 maggio di Goya
Copriva una parete – le armi gettate e gli spasmi dei ribelli, i militari con gli elmetti e gli zaini di tela, l’efficiente raffica dei fucili.
Heaney terminava il poema con un’immagine di Goya al lavoro:
Dipingeva con i pugni e i gomiti, faceva fiorire
il mantello macchiato del suo cuore come appesantitio dalla storia.
Ci sono due modi, probabilmente, di guardare a Goya, che nacque vicino a Zaragoza nel 1746 e morì in esilio in Francia nel 1828. Nel primo modo, egli è un innocente, un artista serio e ambizioso, interessato alla caducità e alla bellezza, ma anche giocoso e dispettoso, finché la politica e la storia non incupirono la sua immaginazione. In questa versione, «la pesantezza dalla storia», lo colse di sorpresa, e approfondì il suo talento. Nella seconda versione, è come se una guerra si stesse svolgendo nella psiche di Goya fin dall’inizio. Benché interessato a molti argomenti, egli era predisposto alla violenza e al caos così che, anche se la guerra tra gli eserciti francese e spagnolo dal 1808 al 1814 e l’insurrezione di Madrid nel 1808 non fossero avvenute, egli avrebbe trovato qualche altra fonte di ispirazione per le cupe e violente immagini che aveva l’urgenza di creare. La sua immaginazione era matura per l’orrore.
La retrospettiva delle opere di Goya al Museum of Fine Arts di Boston si muove attentamente, delicatamente e creativamente tra queste due posizioni, compiendo lungo la strada alcune connessioni e contrapposizioni ingegnose, e altre che sono, quasi per necessità, scomode e strane. Non c’è un modo perfetto di presentare l’opera di Goya in tutta la sua varietà e ambiguità.
Nella prima sala della mostra, dedicata agli autoritratti e ai lavori in cui compare l’artista stesso, vengono forniti indizi sulla complessità della natura di Goya. C’è il piccolo Autoritratto nello studio di pittura, datato intorno al 1795, in cui egli è in mezza silhouette di fronte a un muro bianco dipinto con un tocco di pennello sciolto e ampio. Non c’è la luce del giorno, né la luminosità potrebbe provenire da una luce artificiale. Più che altro, è come se la pittura stessa fosse stata applicata con piacere e senza pensarci troppo. Messo di fronte alla scelta tra una descrizione dettagliata di un mondo oltre la finestra o della luminosità in sé stessa, Goya si è diretto verso ciò che più deliziava e sorprendeva l’occhio.
Il biancore consente allo spettatore di prestare più attenzione allo stesso Goya, alla sua faccia e al suo costume, al tavolo alla sua destra, realizzato con veloci colpi di turchese, su cui si vede il materiale per scrivere dipinto in maniera molto dettagliata. C’è una tavolozza per il colore nella mano sinistra di Goya. Vestito con un corto giacchino da torero, a strisce riccamente ricamate di rosso sulla parte bassa al livello dei fianchi, guarda noi e, presumibilmente, il suo modello. Benché il costume dia del pittore l’impressione che si esibisca, la sua faccia non ha nulla dell’attore che si esibisce. Appare quasi comicamente ordinario mentre affronta il suo lavoro. Il suo naso a patata manca di fascino. Il suo cappello, con portacandela incorporato, è troppo largo. È chiaro dalla composizione che egli non ha spazio per l’apatia. Come si guardano i suoi occhi, dallo sguardo franco e compassionevole, si ha l’impressione che sia silenziosamente preoccupato e allarmato.