Andrea Segrè

451 parole: Waste Watcher

Waste: rifiuto, scarto, spreco, ma anche devastazione e distruzione. Una polifonia di significati che l’inglese – lingua concreta e pragmatica, mediatore comune in campo scientifico – riassume in un unico termine essenziale.

Non così l’italiano, che invece arricchisce di sfumature e differenti significati sottintesi i termini rifiuto e spreco. Mentre, appunto, nell’inglese waste tutto si semplifica ma anche si confonde. Per capire e poi intervenire bisogna separare. Vale la pena cioè tenerli distinti, come si fa nella nostra lingua, magari esemplificando. Così se mangio uno yogurt e getto via il vasetto di plastica che lo conteneva questo è – propriamente – un rifiuto. Anzi, è un rifiuto solido urbano che si raccoglie. Lo potremo differenziare, riciclare, riutilizzare e pagarci una qualche tassa sopra: tassa sui rifiuti solidi urbani, tariffa di igiene ambientale, tassa rifiuti e servizi, service tax o qualche altra sigla/ formula che comunque ha ed avrà un peso nella nostra spesa. Più pesano i rifiuti, gli scarti, gli imballaggi che dobbiamo smaltire, trasportandoli e incenerendoli, maggiore sarà il peso di questo balzello comunque lo si voglia chiamare.

È vero: la crisi economica ha fatto diminuire anche il peso dei rifiuti, si acquista di meno. Ma non necessariamente è diminuito il peso degli sprechi. Perché rifiuto e spreco sono due parole e due effetti diversi, appunto. Infatti, tornando all’esempio dello yogurt, se per una qualche ragione non lo mangio (scade quel giorno perché l’ho dimenticato nel frigorifero e penso non sia più commestibile), dunque lo getto via anche se ancora consumabile, questo è propriamente spreco. Nella spazzatura finisce il vasetto di plastica e il suo contenuto. Per produrre il quale, peraltro, sono state utilizzate delle risorse naturali – suolo, acqua, energia – ed umane (lavoro). Dunque getto via dei soldi (euro), del suolo (ettari), dell’acqua (ettolitri), dell’energia (chilowatt), tutte risorse limitate seppure rinnovabili nel tempo. Lo spreco dunque è legato più ai nostri comportamenti, stili di vita, percezioni, consuetudini, ai principi economici e normativi in atto. Rifiutare si deve, pur se entro certi limiti, sprecare invece no.

In altre parole, o meglio in numeri, possiamo pensare ad una società in cui spreco e rifiuto tendano a zero, si riducano progressivamente ma non per effetto della crisi, invece per scelta e azione “premeditata”. Ma mentre per il primo termine, lo spreco, l’obiettivo deve essere concretamente lo zero, per i rifiuti la non coincidenza con lo zero si può ammettere se questi diventano risorse da riutilizzare.

Così è Trashed. Verso rifiuti zero, il film/documentario dove Jeremy Irons ci conduce attraverso i cinque continenti mostrando quanto l’inquinamento dell’aria, della terra e degli oceani, prodotto dai rifiuti, stia mettendo sempre più in pericolo la stessa esistenza del genere umano: un film che è un atto di accusa durissimo nei confronti dell’economia mondiale ma anche un forte stimolo per cambiare e ridurre la montagna di rifiuti che lentamente ma inesorabilmente ci sta sommergendo[1].

Per i rifiuti abbiamo le “R” di riutilizzo, riciclo, riuso. Per lo spreco abbiamo la “P” di prevenzione. E non è solo una questione di precedenza alfabetica, è la stessa normativa europea del 2009 sui rifiuti che impone di partire con la prevenzione.

È utile tuttavia generalizzare il ragionamento distintivo fra rifiuto e spreco. Il rifiuto, lo scarto, la rimozione, l’abbandono e la perdita sono azioni che fanno parte della vita quotidiana, individuale e collettiva del genere umano. Tutte le attività infatti, da quelle più materiali a quelle più intellettuali, lasciano un “resto” tangibile o intangibile che sia. È per questo motivo che la nozione di rifiuto nella nostra era “moderna” – del (ex) turbocapitalismo, della superproduzione e dell’iperconsumo – si è dilatata, arrivando a comprendere fenomeni apparentemente distanti: dall’immondizia all’uomo, dall’abbandono alla morte, dalla distruzione dell’ambiente naturale alla distruzione della persona. Insomma i significati di waste ritornano tutti, perfettamente uniti e coerenti.

Del resto, anche le “cose” umane possono diventare, o hanno a che fare, con i rifiuti: i desideri, la felicità, la responsabilità, la percezione del mondo, la conoscenza di sé e l’accettazione dei (propri e non solo) limiti. E già, quegli stessi oggetti che gettiamo nella pattumiera con tanta facilità, spogliati in quel momento di ogni valore, sono stati portatori fino a poco prima di importanti significati simbolici, affettivi, cognitivi, è cosi che diventano “cose umane”. I rifiuti non sono soltanto cose buttate, sono l’immagine virtuale di noi stessi, un altro noi creato, con il sofisticato aiuto della pubblicità, per soddisfare il desiderio inconscio di felicità che la concezione di un uomo onnipotente capace di modificare le leggi naturali porta con sé. Rinnovare incessantemente l’immagine di sé attraverso le cose ci allontana inconsciamente dal senso del limite, che per un uomo è innanzitutto limite alla propria vita: la morte. Le cose che ci circondano sono i nodi della rete su cui leghiamo i fili per tracciare la tela del nostro mondo, interno ed esterno, che vorremmo il più bello ed infinito possibile.

Ma, allora, perché rifiutiamo e addirittura sprechiamo? Cosa ci spinge a un gesto che in ogni cultura è considerato negativo – non a caso diciamo “avere le mani bucate” – fino a considerarlo immorale? Lo spreco richiama nel linguaggio comune lo sperperare, il dissipare, lo scialacquare, il trattare male qualcosa che meriterebbe al contrario più attenzione e accuratezza: a partire dal cibo che consumiamo nelle nostre economie, cioè – letteralmente – nelle nostre case.

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